UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI BRESCIA
A.M.I.S. – COMO
ANTIQVAE MVSICAE ITALICAE STVDIOSI
con il patrocinio della Società Italiana di Musicologia

Comitato ordinatore:
Maurizio Padoan (A.M.I.S. Como - Università Cattolica di Brescia)
Robert L. Kendrick (Chicago University)
Piero Gargiulo (Società Italiana di Musicologia)
Andrea Luppi (A.M.I.S. Como - Università Cattolica di Brescia)
Alberto Colzani (A.M.I.S. Como - Università Cattolica di Brescia)

XII Convegno internazionale sul Barocco padano (secoli XVII-XVIII)

Sala della Gloria - Via Trieste, 17

14-16 luglio 2003

Sommario degli Atti

Programma e resoconto

lunedì 14 luglio, ore 9,30

  • Paolo Prodi (Università di Bologna), La cornice e il quadro: il concilio di Trento e la musica
  • Fabrizio Fiaschini (Università di Pavia), Professionismo teatrale e devozione religiosa in Giovan Battista Andreini
  • Antonio Lovato (Università di Padova), Quid et quotuplex sit musica? Questioni di musica sacra «ex studio et responsis cleri patavini» nelle Decisiones Sacramentales di Giovanni Chiericato (1633-1717)

 

lunedì 14 luglio, ore 14,30

  • Robert Kendrick (Università di Chicago), Riflessioni sulla musica della congregazione cassinese fra Cinque e Seicento
  • Jeffrey Kurtzman (Università di St. Louis), Music for Compline published in Italy, 1555-1700: A Survey of the Repertoire
  • Gregory Barnett (Università dell'Iowa), Sonata poetica: topoi, expressive style, and music for the mass
  • Daniele Torelli (Università di Parma), Biagio Marini e la musica sacra

 

martedì 15 luglio, ore 9,30

  • Michaela Zackova Rossi (Firenze), I musici dell'area lombardo–padana alla corte di Rodolfo II (1576-1612)
  • Stanislav Tuksar (Università di Zagabria), The Case of the Croat Georgius Crisanio / Juraj Krizanic. A Pan-Slavic 17th-Century Clergyman, Diplomat and Music Theoretician between Rome, Moscow and Siberian Exile
  • Metoda Kokole (Istituto di musicologia - Accademia Slovena delle Arti e delle Scienze), Sacred Music in “Capo d'Istria” in the 17th Century
  • Piotr Pozniak (Università di Cracovia), I canoni di Andrzej Chylinski, maestro di cappella al Santo di Padova
  • Antonio Delfino (Università di Pavia), I mottetti di Cesario Gussago nell'intavolatura di Pelplin: una raccolta perduta?

 

martedì 15 luglio, ore 14,30

  • Rodobaldo Tibaldi (Università di Pavia), La Missa defunctorum tribus vocibus (1592) di Lodovico Viadana ed una sua riedizione seicentesca
  • Licia Mari (Università Cattolica di Brescia), Un contributo all'opera omnia di Giaches de Wert: la Missa Transeunte Domino nel Codice mantovano Sforza 1616
  • Reinmar Emans (Bach-Institut di Göttingen), I Miserere di Dionigio Bigaglia
  • Beatrice Barazzoni (Università di Padova). La produzione sacra del servita Attilio Ariosti fra liturgia e devozione: analisi di alcune pagine inedite degli anni italiani

 

mercoledì 16 luglio, ore 9,30

  • Rodolfo Baroncini (Università di Parma), «L'officio delle tenebre»: pratiche sonore della settimana santa in area lombardo-padana e veneto-padana tra Cinque e Seicento
  • Stefano Baldi (Università del Piemonte Orientale), La musica nella cattedrale di Vercelli tra la Controriforma e l'età moderna
  • Christine Getz (Università dell'Iowa), Funzione sacra e strategie di marketing nella polifonia dei Vespri di Santa Maria della Scala a Milano dal 1595 al 1610
  • Marina Toffetti (Milano), Prassi contrappuntistica e sensibilità musicale a metà Settecento. L'esperimento di Pietro Paolo Valle presso il Duomo di Milano (1743)

    Conclusione dei lavori

 

Per informazioni:
Università Cattolica del Sacro Cuore
Servizio Formazione Permanente
C.da Santa Croce, 17 – 25122 Brescia
Tel. 030.2406504-509 - Fax 030.2406505
Sito Web: http://www.unicatt.it
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A.M.I.S. – COMO
ANTIQVAE MVSICAE ITALICAE STUDIOSI
Tel. e Fax 031-572872
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Resoconto

Presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, nei giorni 14-16 luglio 2003, si è svolto il XII Convegno Internazionale sul barocco padano (XVII-XVIII secolo) «La musica e il sacro», organizzato dall'A.M.I.S. di Como con il patrocinio della SIdM.

La prima sessione del convegno, presieduta da Maurizio Padoan, è iniziata con la relazione di Paolo Prodi (La cornice e il quadro: il concilio di Trento e la musica). “La cornice e il quadro” è l'espressione scelta da Prodi per indicare, in analogia con quanto avviene nelle arti figurative, il passaggio dalla fruizione collettiva della musica, integrata nel quotidiano degli uomini, alla musica inserita nel contesto del concerto e del melodramma e in qualche modo isolata e più distante dal pubblico. Tale cambiamento è strettamente connesso al cammino verso l'età moderna, all'interno del quale si inserisce anche il concilio di Trento il cui rapporto con la musica va letto nel più vasto contesto di modernizzazione e secolarizzazione, che si esprime inizialmente nella forma della confessionalizzazione. Il termine “secolarizzazione”, precisa Prodi, va inteso, in quest'epoca, non come rifiuto di ogni concezione trascendente di Dio, bensì nel senso di un processo di de-magificazione o dis-incantamento secondo la visione di Max Weber. Il moderno nasce infatti con un forte richiamo religioso in tutti i movimenti di riforma del tardo medioevo e della prima età moderna. La riforma protestante e la riforma cattolica rappresenterebbero quindi risposte diverse, anche in campo musicale, al problema della modernità e al problema della “salvezza” individuale dell'uomo. Nei secoli successivi la musica, abbandonando gli antichi modi per le nuove tonalità, non sarà più il tentativo di riprodurre nel microcosmo del suono la complessità del moto delle sfere celesti, come nella polifonia fiamminga, ma porrà come suo centro l'animo umano. Si assiste inoltre al superamento della tradizione polifonica tardo – medioevale in favore di una nuova sintesi suono-parola finalizzata a esprimere sentimenti e passioni. Dopo il concilio di Trento, che non ha dettato in campo musicale direttive precise ma si è tenuto su un piano generale, la musica, secondo Prodi, fuoriesce dal luogo sacro e dalla liturgia e prende diverse strade: gli artisti, al di là dei seguaci di Palestrina che tentano di domare la tradizione polifonica per aderire alle linee conciliari, esprimono una nuova spiritualità, nel tentativo di sacralizzare la vita quotidiana inserendola nel quadro devozionale.

Il fenomeno tardo cinquecentesco del professionismo dei comici dell'arte è stato studiato spesso in relazione al problema del conflitto fra i comici dell'arte e controriforma. La relazione di Fabrizio Fiaschini (Professionismo teatrale e devozione religiosa in Giovan Battista Andreini) tende a moderare tale visione analizzando l'esperienza del professionista Giovan Battista Andreini, comico dell'arte, drammaturgo e poeta. Nel 1623 Andreini, nella premessa al poemetto La Tecla vergine, e martire, parla di “incessabile agitazione” in riferimento agli spostamenti da una piazza all'altra e alla condotta di vita mondana che non favorivano una serena disposizione dell'animo a Dio. Nella stessa premessa però Andreini si dilunga in una accurata descrizione della liturgia e degli eventi religiosi e di devozione della Milano borromea, descritti dall'Andreini come testimone diretto. Allo stesso modo, nel compiere il circuito classico dei comici dell'arte che toccava Milano, Bologna, Venezia, Vicenza e Brescia, l'autore accompagna ogni tappa del suo viaggio con operette che dedica alle specifiche devozioni del luogo, con particolare attenzione alle pratiche diffuse in quel particolare momento. Una lettura d'insieme del corpus complessivo di queste operette devote dell'Andreini mette in risalto la precisa volontà dell'autore di leggere metaforicamente la faticosa itineranza professionale ponendo in stretta relazione itinerario teatrale e peregrinatio religiosa. Si delinea la figura di un Andreini personalmente coinvolto nelle pratiche di pietà e esperto conoscitore delle principali devozioni post-tridentine, impegnato nella promozione del pensiero contro-riformista e di un suo personale riconoscimento come artista e attore cristiano. Il viaggio teatrale, nella lettura di Andreini, cessa di essere un moto perpetuo vano, per diventare lo strumento privilegiato della santificazione dell'attore.

L'intervento di Antonio Lovato, 'Quid et quotuplex sit musica ?' Questioni di musica sacra «ex studio et responsis cleri patavini» nelle 'Decisiones Sacramentales' di Giovanni Chiericato (1633-1717), analizza le Decisiones Sacramentales di Giovanni Chiericato, giurista, teologo e scrittore, nonché uno dei più stretti collaboratori del vescovo di Padova s. Gregorio Barbarigo. In qualità di prefetto della Congregazione dei casi di coscienza e di segretario della Congregazione dei parroci, durante le riunioni collegiali dei sacerdoti Chiericato aveva il compito di proporre quesiti di natura morale, giuridica e disciplinare: dalle risposte raccolte egli andò formando le Decisiones Sacramentales, pubblicate tra il 1692 e il 1697. Nel tomo I, libro III, sono compresi i «casi»  che riguardano la celebrazione della Messa: nel n. XXXVII sono discusse più di settanta questioni, teoriche e pratiche, relative alla musica e alla sua funzione, in particolare durante le celebrazioni liturgiche. Ne emerge uno spaccato che getta luce sulla concezione della musica sacra verso la fine del sec. XVII, con riguardo ai testi di formazione e informazione, alla consapevolezza storica della disciplina, alla pratica monodica e polifonica, all'uso dell'organo e degli altri strumenti. Il quadro complessivo è interessante, perché riflette il modo di «fare musica» a livello periferico, aprendo spiragli anche sulla vita musicale delle comunità parrocchiali durante il Seicento.

La sessione del pomeriggio, presieduta da Metoda Kokole, si è aperta con la relazione di Robert Kendrick (Riflessioni sulla musica della congregazione cassinese fra Cinque e Seicento) che ha preso in esame la tradizione polifonica della congregazione benedettina di S. Giustina di Padova (cassinese) fra Rinascimento e Barocco. Fra il 1565 e il 1650 quattordici membri della congregazione pubblicarono quarantasei edizioni che includono generi diversi: fino al 1610 ca. prevalgono infatti musiche per la Settimana Santa, mottetti in stile antico e messe, nel periodo successivo, invece, salmi (con o senza messe) e mottetti in stile moderno. Se si eccettuano però i monasteri di S. Giustina e di S. Giorgio Maggiore risulta molto incerta altrove la presenza di cappelle stabili e sono inoltre esigui i riferimenti a direttive precise della congregazione rispetto alla polifonia. Le dediche di alcuni pezzi dei compositori cassinesi ai confratelli rivelano la componente corporativa dell'ordine; sembra altresì corretto riconoscere una certa autonomia soprattutto ai compositori più prolifici. Anche dal punto di vista stilistico non è semplice individuare un unico registro estetico fra composizioni che mostrano evidenti differenze anche in relazione al differente livello di complessità che le caratterizza. Kendrick ha però effettuato alcune riflessioni sull'identità cassinese che si manifesterebbe in alcune scelte quali: il numero crescente di mottetti “generici” che suggeriscono l'intenzione di onorare figure minori di santi specifiche dell'ordine, la cospicua presenza, nel primo libro di mottetti di S. Patta, di passi del Cantico dei Cantici che sembra inserirsi specificamente nella tradizione interpretativa monastica del Cantico e infine la musica per la Settimana Santa che resta oggetto di interesse della congregazione per tutto il Cinquecento. La relazione è terminata poi con alcuni accenni agli organici previsti dalle edizioni esaminate e da alcune considerazioni sulla natura prevalentemente maschile della congregazione.

La relazione di Jeffrey Kurtzman (Music for Compline Published in Italy, 1555-1700: A Survey of Repertoire) ha messo in luce le evoluzioni stilistiche e le caratteristiche del repertorio per l'Ufficio della compieta pubblicato in Italia fra il 1555 e il 1700, senza escludere riferimenti e confronti con il coevo repertorio per i Vespri. La musica per la Compieta, precedentemente indagata da Jerome Roche in Proceedings of the Royal Association 109 (1982/83), pp. 60-79, veniva pubblicata in raccolte separate o insieme alla musica per i Vespri e talvolta fu inclusa in raccolte di mottetti o concerti ecclesiastici, con il prevalere dell'una o dell'altra tipologia di pubblicazioni a seconda dei differenti periodi. Partendo da I sacri e santi salmi di Willaert del 1555, prima raccolta che include elementi per la Compieta oltre ai salmi per i Vespri, e dalla prima raccolta di sola musica per la Compieta di Giammatteo Asola del 1573, Kurtzman ha messo in luce per ciascuna decade della prima metà del '600 la graduale affermazione dello stile concertato e dell'uso obbligato degli strumenti, dal primo esempio riscontrato nella musica per i Vespri e per la Compieta di Amadio Freddi (1616) fino all'affermazione dello stile concertato nelle stampe degli anni 1619-1630. Questo stile, spesso con una coppia di violini, resta predominante fino al 1650 come nel contemporaneo repertorio per i Vespri, mentre mutano nel corso dei vari decenni il numero di voci e le combinazioni di voci e strumenti previste nelle varie pubblicazioni. Dal 1650 si assiste da un lato alla riduzione della quantità di repertorio stampato, dall'altro all'affermazione di tendenze stilistiche più conservatrici: ritorna frequente l'assetto a cinque o otto voci e si riduce la percentuale di pubblicazioni in stile concertato, mentre diverse raccolte ripropongono l'indicazione pieno e fugato e la precisazione da cappella.

Nella sua relazione (Concerning the sonata da chiesa) Gregory Barnett ha esaminato il significato e l'utilizzo del termine sonata da chiesa nel XVII secolo. Dal primo Settecento, quando il lessicografo di musica Sébastien de Brossard definì la sonata da chiesa e la sonata da camera come i due generi di sonata noti a les Italiens, i musicologi hanno considerato questi termini come rappresentativi della pratica seicentesca. Ciononostante, il genere della sonata da chiesa ha subito una rivalutazione significativa in vari saggi e pubblicazioni recenti di Peter Allsop, il quale giustamente accenna a come il termine figuri, fra i titoli delle stampe dei compositori seicenteschi, molto meno frequentemente rispetto a quanto comunemente si ritiene. Dal momento che il termine sonata da chiesa è piuttosto raro nel repertorio strumentale, occorre chiedersi perché si dovrebbero considerare tali sonate, solo in un secondo momento designate da chiesa, come musica ecclesiastica. Per analizzare tale problema Barnett compie un'indagine sulla terminologia dei generi di sonata tardo-seicenteschi e del primo Settecento. In particolare Barnett esamina le due definizioni di sonata e sonata da camera, che compaiono regolarmente nel repertorio sonatistico, facendo riferimento al fenomeno descritto dai linguisti con il termine markedness: sonata è quindi il termine unmarked (vale a dire non segnato) mentre sonata da camera è il termine marked (ovvero segnato). Nel vocabolo sonata, sostiene Barnett, è implicito il riferimento al genere ecclesiastico mentre la designazione sonata da chiesa è semplicemente un termine successivo, equivalente e più esplicito, che viene utilizzato al posto di sonata negli anni '80-'90. Quest'interpretazione trova conferma nei cataloghi degli editori che mostrano il cambiamento della terminologia utilizzata, da sonata a sonata da chiesa, per descrivere un determinato repertorio di pezzi, e dalla testimonianza dei compositori del tardo Seicento che, mentre compiono una distinzione fra gli stili appropriati alla chiesa e alla corte e associano a uno stile ecclesiastico il termine sonata, chiarifica anche come la contemporanea esecuzione di tali sonate non fosse legata all'ambiente. Possiamo dunque considerare la sonata (da chiesa) come stilisticamente adatta per uso in chiesa, ma, simultaneamente, un genere multiuso nella prassi esecutiva dell'epoca.

Nella relazione di Daniele Torelli (Biagio Marini e la musica sacra) viene riconsiderata la carriera professionale e artistica di Marini contestualizzandone i rapporti con le istituzioni ecclesiastiche e il repertorio musicale sacro con cui il musicista venne a contatto. Lo studio analizza dettagliatamente sotto il profilo stilistico e liturgico-musicale l'intera produzione sacra di Marini pervenuta integra o incompleta, proponendo anche alcune ricostruzioni e presentando inoltre l'insieme delle opere tràdite in miscellanee. Particolare rilievo viene dato alle problematiche relative ai testi intonati e all'ultima opera, Lacrime di Davide sparse nel Miserere Concertato in diversi modi (1655), di cui è stata approntata l'edizione critica.

La seconda giornata di studi, presieduta da Piero Gargiulo, si è aperta con la relazione Sacred Music in “Capo d'Istria” in the 17th Century di Metoda Kokole. Dalla metà del XVI secolo Capodistria dispone di una sua cappella musicale; la maggior parte dei musicisti (la cui prima testimonianza risale al 1573) appartiene all'ordine dei francescani conventuali. Un importante organista della cattedrale fu Gabriello Puliti (Montepulciano 1580ca.–Trieste 1644), prolifico compositore (36 opere sacre e profane, stampate a Venezia tra il 1600 e il 1635), che visse a Capodistria con alcune brevi assenze dal 1606 al 1624. Tra la produzione sacra, di relativa importanza sono le raccolte di mottetti monodici (Pungenti dardi spirituali, 1614; Lilia convallium e Sacri accenti, 1620), dedicate ad amici, nobili locali e musicisti (Raimondo Fini, Girolamo Zarotti, Gavardo Gavardi, Ludovico Daini, Iseppe Albanese e Giacomo Finetti, maestro di capella alli Frari di Venezia). Purtroppo sia la musica a stampa, sia gran parte dei manoscritti di Puliti non sono pervenuti a noi oggi; dell'archivio del Seicento restano alcune raccolte a stampa dei più famosi maestri attivi in Venezia (Giovanni Rovetta, Giovanni Antonio Rigatti, Orazio Tarditi, Giovanni Battista Chinelli, Giovanni Legrenzi) e numerose musiche manoscritte, di cui due sicuramente autografe (il salmo Laudate pueri di Natale Monferrato, 17/7/1670 e il mottetto Victoria, victoria di Teofilo Orgiani, 5/7/1683). La maggior parte dei manoscritti del secondo Seicento sono realizzati da tre diversi copisti; uno di questi fu Antonio Tarsia (1643-1722), membro di una nobile famiglia di Capodistria, per 40 anni organista della cattedrale e autore di almeno 28 composizioni realizzate tra il 1660 e il 1718.

Michaela Zackova Rossi ha condotto un'approfondita ricerca sui Musici dell'area lombardo-padana alla corte di Rodolfo II (1576-1612). Durante i quasi quattro decenni del regno di Rodolfo II (1576-1612) hanno operato a corte, sia pure con ruoli diversificati, circa 300 musicisti, di cui 234 di area fiamminga/tedesca, 50 italiani (circa il 17%), otto boemi, sette spagnoli e un inglese; tra gli italiani troviamo Camillo Zanotti, Alessandro Orologio, Stefano Felis, Tiburzio Massaino, Giovanni Battista Dalla Gostena, per citare i più noti. Nel ricco e variegato panorama della corte rodolfina le attività musicali erano ripartite in due diverse organizzazioni: la Cappella musicale (Kapellnpartey), cui erano legati i cantanti e gli strumentisti, e le Stalle imperiali (Stallpartey), cui appartenevano trombettieri e timpanisti. Spesso l'area d'origine dei musici di corte ne denotava la specializzazione: i trombettieri provenivano principalmente da Udine, Brescia e Verona; i violinisti e musici da camera generalmente da Cremona. Particolare era inoltre la provenienza legata alla specializzazione dei singoli protagonisti: i discantisti dalla Spagna, altri cantanti prevalentemente dai Paesi Bassi, i trombettieri dal nord d'Italia, i timpanisti dalla Germania, mentre i musici da camera erano in prevalenza fiamminghi e italiani. Il contributo di Zackova Rossi da un lato ha esaminato le motivazioni che indussero numerosi musicisti dell'area lombardo–padana a raggiungere Praga, e dall'altro ha offerto alcuni esempi del fiorente repertorio talora destinato a costituire parte non secondaria della produzione di quei musicisti, come le Cantiones admodum devotae di Antonio Abondio (1589), il metodo Tutta l'arte della trombetta di Cesare Bendinelli (1614), la Cantica Sion di Alessandro Orologio (1627).

I canoni di Andrzej Chylinski, maestro di cappella al Santo di Padova sono stati oggetto dell'intervento di Piotr Pozniak. Nel 1620 Chylinski compose un canone, Da pacem in diebus nostris, invitando i suoi contemporanei a scioglierne l'enigma esecutivo; siccome nessuno vi riuscì, Chylinski stesso decise di pubblicarne la soluzione qualche anno più tardi (Anversa, 1634). In realtà si tratta di 16 canoni indipendenti, che formano un solo grande ciclo, quindi non come si credette per lungo tempo di un canone solo a 64 voci. La struttura è determinata da due serie di otto canoni, distribuiti e organizzati tra loro in modo simmetrico, a formare un unico ciclo (come suggerisce l'enigma toti in toto); la disposizione simmetrica è mantenuta anche all'interno delle combinazioni 'a coppie' dei canoni e dall'ingresso delle singole voci. Tutti i canoni sono infiniti e le ripetizioni avvengono per trasposizioni di seconda maggiore, inferiore o superiore, in modo da ritornare al punto di partenza dopo sei ripetizioni. Nel XVII secolo l'arte del canone non era più così diffusa in Italia; molto probabilmente i compositori veneziani non risolsero l'enigma non perché troppo difficile, ma perché non interessati a rispondere a tale 'provocazione', essendo ormai lontani da questo tipo di prassi. Quello di Chylinski non è comunque un caso isolato; Costanzo Porta, suo predecessore a Padova, fu autore di canoni enigmatici e, come lui, Romano Micheli, Marcantonio Ferruccio e altri compositori coevi. Rispetto allo stile degli autori italiani, quello di Chylinski concentra l'attenzione sugli aspetti polifonici, piuttosto che sulla bellezza della linea melodica. La sua tecnica compositiva è unica ed esemplare; Pozniak esprime tutto il suo rammarico, in primis per la cultura polacca, quando afferma che nessun'altra composizione di Chylinski è pervenuta ai giorni nostri.

L'ultimo intervento della sessione è stato quello di Antonio Delfino sui Mottetti di Cesario Gussago nell'intavolatura di Pelplin: una raccolta perduta? L'intavolatura di Pelplin, costituita da sei volumi lacunosi e incompleti, oltre alle composizioni di Gussago (31), ne comprende altre di Orfeo Vecchi (117) e Giovanni Croce (35). Il corpus di Gussago, posto ad apertura di manoscritto all'inizio del primo volume, si compone di 31 mottetti, di cui i primi dieci a quattro voci e i restanti a cinque voci. In nessun catalogo delle opere di Gussago sono citate altre composizioni di questo tipo, databili intorno al 1606-1607. Il manoscritto è realizzato secondo l'intavolatura per tastiera del sistema tedesco, che riporta il testo liturgico destinato alle voci, ma presenta interamente solo due di esse (le voci estreme, assemblate tra loro, possono essere trascritte solo ricostruendo il discorso imitativo condotto da quelle intermedie). Si tratta di una sorta di short score, una 'riduzione' a uso esclusivamente organistico. Da questo punto di vista l'intavolatura di Pelplin rivela la sua impostazione prevalentemente pratica; pertanto fa eccezione il decimo mottetto di Gussago, Quam pulchra es, l'unico intavolato per tutte e quattro le voci; Delfino giustifica questa scelta attraverso ragioni non tanto estetiche, quanto stilistiche (è l'unico a differenziarsi dalla prassi cinquecentesca). Escluso il Cantate Domino, tutti i mottetti sono di argomento mariano e presentano caratteristiche stilistiche e contenutistiche simili; questo lascerebbe pensare che l'amanuense li abbia ricopiati da un'unica fonte; un corpus di 31 mottetti può sembrare quantitativamente eccessivo, ma non è un'eccezione per l'epoca e, sicuramente, ne accresce l'interesse dal punto musicale.

La “Missa defunctorum tribus vocibus” (1592) di Lodovico Viadana e una sua riedizione seicentesca, oggetto di uno studio condotto da Rodobaldo Tibaldi, è stata la prima relazione della sessione pomeridiana (presieduta da Daniele Torelli). Nota come una delle prime pubblicazioni di Lodovico Viadana, questa Messa è considerata una delle sue opere minori. Curioso quindi il fatto che ne esistono ben tre versioni a stampa: le prime due (1592 e 1598), del tutto identiche, sono state realizzate dai tipi veneziani di Amadino, la terza (1667) è stata stampata a Bologna da Caldara, a 65 anni dalla prima e quarant'anni dopo la morte di Viadana; difficile parlare di recupero, per un'opera minore e per un periodo in cui non esisteva ancora il concetto di repertorio. Ma l'originalità della Missa defunctorum sta soprattutto nell'organico e nella struttura delle parti: è scritta per tre voci (unico precedente è rappresentato dalla Missa defuctorum tribus vocibus di Asola, con cui è difficile stabilire un legame per mancanza di dati sufficienti) e prevede la specifica indicazione litanie per la formula Sancta Maria ora pro nobis, inserita subito dopo il Benedictus (i decreti dell'epoca prevedevano la recita delle litanie solo fuori della messa o, tutt'al più, dopo l'elevazione). La stampa del 1667 presenta una serie di elementi (tra i quali l'abbassamento di una quarta dei brani in chiavi alte, per eseguire tutto in chiavi naturali; un diverso impiego del tenor secondo una concezione contrappuntistica di 'riempimento armonico'; un'intensificazione ritmica nel finale dell'offertorio e sezioni scritte secondo uno stile simile a quello delle canzoni profane) che la fanno apparire una versione decisamente semplificata, rispetto alle edizioni precedenti; con molta probabilità si tratta di una versione destinata a cantori non professionisti, non pratici di musica figurata, di un'opera passata alla storia, a questo punto ingiustamente, come minore.

Licia Mari è intervenuta con Un contributo all'opera omnia di Giaches de Wert: la “Missa Transeunte Domino” nel Codice mantovano Sforza 1616. Unica missa parodia del compositore fiammingo, la Missa Transeunte Domino è contenuta, oltre che nel celebre fondo Santa Barbara, in altri tre codici manoscritti (Mantova, Monferrato e Udine). Tanto il codice di Mantova (1616), quanto quello di Udine (1622) sono stati realizzati dalla mano di Francesco Sforza, importante copista della Cappella di Santa Barbara; le due versioni, però, presentano notevoli differenze. Il mottetto Transeunte Domino, su cui si basa la parodia, è stato tratto da una raccolta a stampa veneziana (Gardano, 1568); si tratta di un componimento a 5 parti (Cantus, Alto, Tenor, Quintus ovvero Tenor II, Bassus) che, per entrambe le versioni della messa, costituisce materiale melodico per il Kyrie; nel codice friulano, però, non è il Cantus a iniziare e, come nel successivo Christe, la scrittura è decisamente più complessa, molto più simile allo stile polifonico cinquecentesco. La prima sezione del Credo è identica in entrambi i codici (nel ricopiarlo, Sforza corregge soltanto gli errori commessi distrattamente in Mantova); al «crucifixus est» il codice mantovano propone una scrittura a tre parti (Cantus, Contratenor e Tenor), articolata e arricchita da giochi di false relazioni, e direttamente collegata al «et resurrexit» che mantiene il tempo tagliato, ma prevede una quarta voce (diversamente dal codice friulano in cui i legami cadenzali sono meno forti). Altra notevole differenza è rappresentata dal Sanctus: rispetto al codice di Udine, quello mantovano presenta cadenze diverse per le varie sezioni; ciò lascia supporre che Wert abbia riscritto alcune parti di questa messa, prima che fosse ricopiata per il codice di Udine. Per questa ipotesi e per le altre differenze notate tra le due versioni, si potrebbe pensare che Sforza abbia utilizzato ulteriori fonti manoscritte (dello stesso Wert?) rispetto a quelle impiegate per il codice mantovano, secondo modalità ancora da ricostruire e verificare.

Il titolo della relazione di Reinmar Emans ha subito una necessaria modifica da I “Miserere” di Dionigio Bigaglia a Il “Miserere” di Dionigio Bigaglia? Purtroppo Emans ha avuto accesso a un unico documento, il Miserere in do minore conservato al monastero benedettino di Krems, la cui fonte oltretutto crea qualche problema di attribuzione: il frontespizio riporta che la composizione è «del Benedetto Bigalgia, Monaco Cassineus». Mentre “Bigalgia” può essere tranquillamente considerato un errore grafico, “Benedetto” si potrebbe intendere come semplice appellativo (in alcune fonti Bigaglia è chiamato “padre Benedettino”, da cui potrebbe derivare Benedetto); ma è l'analisi stilistica a confermarne l'attribuzione. Di Bigaglia oggi si conoscono solo le Suonate per flauto a becco e continuo; tra il 1970 e il 1980 la Messa in fa maggiore e il Miserere in do minore furono trasmessi rare volte alla radio e sempre sotto il nome di Pergolesi; questo perché Caffarelli riporta le due composizioni nella sua edizione pergolesiana. Oggi sappiamo che a Pergolesi sono riconosciute con certezza solo 33 delle opere a noi note e, tra queste, non può rientrare il miserere in questione. Il confronto stilistico e redazionale tra la versione pubblicata da Caffarelli e la fonte di Krems, lascia supporre che Bigaglia abbia addirittura collaborato alla realizzazione della seconda, apponendo indicazioni vocali 'su misura' per i frati del monastero. Caffarelli stesso annota che questo Miserere è «più fuor di moda» del secondo da lui pubblicato; se si accetta Bigaglia come autore, ciò è molto plausibile: sebbene sopravvisse a Pergolesi, Bigaglia nacque 34 anni prima. Inoltre il Miserere in do minore è stilisticamente simile alla Messa in fa maggiore dello stesso Bigaglia, mentre solo il secondo Miserere dell'edizione Caffarelli presenta analogie con altre opere di Pergolesi (in particolare con lo Stabat Mater).

Ha chiuso la seconda giornata di studi Beatrice Barazzoni con La produzione sacra del servita Attilio Ariosi fra liturgia e devozione: analisi di alcune pagine inedite degli anni italiani. Il mottetto O quam suavis est, Domine del compositore e frate servita Attilio Ariosti (1666-1729) è una delle rare intonazioni monodiche dell'antifona gregoriana e fu forse destinato alla liturgia della basilica di San Petronio a Bologna: pur non indulgendo (nell'aria) alle aperture melismatiche del coevo mottetto solistico veneziano fin de siècle, se ne avvicina (nel recitativo) per l'utilizzo di stilemi quali il tetracordo minore discendente, tipico del lamento, che caratterizza il basso continuo; la voce di tenore, con un canto ampio e spiegato, è sostenuta da momenti concertanti di archi-oboi, in modo simile a un tutti del concerto grosso. Le cantate spirituali sono destinate alla cattolica corte viennese e intonano versi di Bernardoni (poeta cesareo), dedicati a San Giovanni di San Facondo; sulla base di un confronto effettuato con un'intonazione di Sammartini concordante nel testo, si è rilevato come Ariosti rimanga profondamente legato alla sensibilità tardo-barocca, di cui protrae le risorse formali ed espressive (il motto d'apertura, la ricca tavolozza retorico-affettiva) sin oltre gli anni Venti del Settecento sulla scia di Caldara. I sei oratori di Ariosti furono composti per gli ambienti devozionali di Bologna (le confraternite di San Filippo Neri e dei Santi Sebastiano e Rocco) e di Ferrara (Santa Maria de' Servi), nonché per le cappelle ducali di Modena e di Mantova: presso quest'ultima corte, sotto il duca Ferdinando Carlo (ultimo dei Gonzaga), l'oratorio era coltivato quasi quanto l'opera ed era 'prodotto' esclusivamente da compositori ed esecutori locali.

La relazione di Stefano Baldi sulla Musica nella cattedrale di Vercelli tra la Controriforma e l'età moderna ha avviato l'ultima giornata del convegno, presieduta da Jeffrey Kurtzman. La ricerca di Baldi parte dall'analisi di precedenti saggi sulla musica religiosa vercellese e dalla constatazione della loro insufficiente contestualizzazione storica. Già per il periodo che precede la Controriforma, è possibile ricostruire dei legami tra le cattedrali di Vercelli e di Torino: ruolo e caratteristiche tanto degli organisti, quanto dei cantori presentano elementi in comune (tra l'altro alcuni organari, segretari e cantori a servizio della corte sabauda compaiono anche negli elenchi di Sant'Eusebio); nel primo ventennio del Seicento, invece, si riscontra una particolare circolarità di nomi tra i maestri di cappella delle cattedrali novarese e vercellese. Ma è soprattutto a partire dal 1559-1560, anni in cui vengono applicate le riforme approvate dal Concilio di Trento, che la storia della cattedrale di Vercelli presenta una serie di aspetti interessanti: si istituisce il primo seminario, nel quale confluisce il Collegio degli Innocenti (fondato precedentemente per la formazione dei pueri); dalla fusione nasce un corpus di sedici cantori, per il quale scrivono i numerosi maestri di cappella avvicendatisi a Vercelli, da Orazio Colombani a Orfeo Vecchi, Stefano Nascimbeni, Pedro Heredia, Marco Antonio Centorio, Giovanni Ambrogio Bissoni e Carlo Monza, per citare i più prestigiosi. Almeno alcuni organisti del duomo meritano una menzione particolare: Giovanni Antonio Cangiasi, che fu organista a Vercelli dal 1588 fino al suo trasferimento a Castelnuovo Scrivia, ebbe il merito di dare una significativa svolta alla produzione della musica sacra in Piemonte, Pietro Paolo Valle, accademico filarmonico di Bologna, mentre Giuseppe Maria Vaccari, oggi a noi sconosciuto, attivo in duomo come organista già negli anni '30 del Settecento e divenuto maestro di cappella nel 1740, fu considerato dai suoi contemporanei il più grande organista esistente, formatosi a Novara e a Bologna, dove apprese le regole del contrappunto e perfezionò la pratica organistica.

La Funzione sacra e strategie di marketing nella polifonia dei Vespri di Santa Maria della Scala a Milano dal 1595 al 1610, per Christine Getz ha come figura centrale quella di Orfeo Vecchi, maestro alla regia cappella ducale di Milano negli anni 1580-1582 e 1586-1603. Vecchi, che conquistò un'importanza internazionale attraverso la diffusione delle sue opere a stampa, fu autore di numerose messe, inni, magnificat, mottetti, salmi polifonici, falsibordoni, e madrigali spirituali, realizzati quasi interamente durante i suoi anni di attività a Santa Maria della Scala. Le pubblicazioni a noi pervenute lo distinguono dai suoi contemporanei non solo per una puntuale organizzazione liturgica e tonale, ma anche per una spiccata aderenza al rito romano piuttosto che ambrosiano (motivo anche della successiva fortuna). Le particolari scelte stilistiche evidenziano come i Vespri, che durante le solennità principali venivano celebrati all'altare maggiore coinvolgendo un maggior numero di fedeli, costituissero un momento importante del servizio liturgico a Santa Maria della Scala, soprattutto negli ultimi anni del XVI secolo. I documenti testimoniano che, nello stesso periodo, anche la Compieta raggiunse un livello di importanza e di notorietà analogo. Per garantire la qualità musicale durante questi servizi vennero decretate severe disposizioni, riguardo la funzione e la prassi del canto ambrosiano; alcune contemplarono tra l'altro la necessità di aumentare il numero dei cantori e il loro obbligo di servizio esclusivo a Santa Maria della Scala. Eccetto i falsibordoni, la maggior parte della produzione di Vecchi (inni, mottetti e salmi) è in rigoroso stile imitativo e non stupisce che, vista l'importanza religiosa e musicale data al Vespro e alla Compieta, fosse proprio questa produzione a supportare tali momenti liturgici.

Marina Toffetti ha incentrato il suo intervento sulla Prassi contrappuntistica e sensibilità musicale a metà Settecento. L'esperimento di Pietro Paolo Valle presso il Duomo di Milano (1743). Durante l'estate del 1742 Carlo Baiani, maestro di cappella del Duomo di Milano, chiede di ritirarsi dal suo incarico per le ormai precarie condizioni di salute. Nella stessa occasione un giovanissimo Pietro Paolo Valle si dichiara disponibile a supplire Baiani senza pretendere alcuna retribuzione, in cambio di un subentro a pieno titolo dopo la sua morte. Tuttavia, dopo essere stato sottoposto a due prove scritte, Valle è considerato non idoneo a diventare maestro di cappella del Duomo di Milano. La vicenda, in parte già nota, non presenterebbe alcun ulteriore interesse, se non fosse per la copiosa documentazione relativa all'esame di Valle, consultabile presso l'Archivio della veneranda Fabbrica del Duomo; oltre alle composizioni realizzate per le due prove, sono conservati anche i pareri espressi da una decina di illustri compositori e maestri di contrappunto dell'epoca (fra i quali Andrea Basili, Pietro Paolo Bencini, Giuseppe Gonella, Leonardo Leo, Nicolò Porpora, Pietro Pulli, Carlo Zuccari), che in qualità di membri esterni dovettero pronunciarsi sulle potenzialità compositive del candidato. Queste testimonianze hanno consentito di far luce anche su alcuni aspetti ancora poco noti della prassi concorsuale e hanno rivelato quale considerazione avessero i compositori, riguardo alcuni elementi contrappuntistici largamente impiegati all'epoca.

Silvia Faregna-Paola Carlomagno