La cultura dei musicisti italiani nel '900

a cura di Guido Salvetti e Maria Grazia Sità. Milano, Guerini & Associati, 2004

(Musica nel Novecento italiano, 2)

Sommario

  • G. Salvetti, Introduzione
  • G. Sanguinetti, La formazione dei musicisti italiani (1900-1950)
  • B. Lazotti, U. Piovano, S. Ciolfi, M.G. Sità, La formazione di cantanti e strumentisti (I)
  • M. Muttoni, La formazione del compositore italiano nella seconda metà del 900
  • B. Lazotti, U. Piovano, S. Ciolfi, P. Carlomagno, M.G. Sità, La formazione di cantanti e strumentisti (II)
  • R. Moffa, Musicisti e letteratura (I)
  • E. Floridia, Musicisti e letteratura (II)
  • M. Moiraghi, Per un catalogo di musiche italiane del secondo '900 su testi letterari italiani novecenteschi
  • L. Cosso, Musica, arti visive e spettacolo (I)
  • M. Udina, Musica, arti visive e spettacolo (II)
  • A. Estero, Il musicista-come-intellettuale nella seconda metà del Novecento italiano: tra politica e ideologia
  • Indice dei nomi, a c. di P. Carlomagno

Come scrive Salvetti nell’Introduzione, nel volume «si formulano ipotesi – teoriche – su quale possa essere il profondo legame tra esperienze artistiche che sembravano dover continuare a ignorarsi per sempre. Ma si tratta anche – storicamente – di documentare e di narrare come e in quali contesti, con quali protagonisti e con quali occasionali incontri, la musica, uscita negletta da una storia culturale nazionale tutta incentrata sulla letteratura, sia riuscita a trovare considerazione e attenzione, rapporti fecondi e confronti problematici».


Introduzione

L'impianto di questo volume non sarebbe stato possibile in anni, che sembrano ormai lontani, in cui “sistematico” e “storico” stavano a indicare mondi separati per contenuti e metodi. Qui si formulano ipotesi – teoriche – su quale possa essere il profondo legame tra esperienze artistiche che sembravano dover continuare a ignorarsi per sempre. Ma si tratta anche – storicamente – di documentare e di narrare come e in quali contesti, con quali protagonisti e con quali occasionali incontri, la musica, uscita negletta da una storia culturale nazionale tutta incentrata sulla letteratura, sia riuscita a trovare considerazione e attenzione, rapporti fecondi e confronti problematici.

Rispettivamente, la scelta a cui sono improntati i singoli capitoli di questo volume è stata quella di raccogliere, sì, documentazione, ma di rinunciare a priori a ogni velleità di completezza. Si è voluto costruire, piuttosto, una casistica significativa (soprattutto là dove ci si è occupati di teatro musicale), o addirittura, come nel caso del rapporto con le arti figurative, ci si è limitati a un campione ristretto per poterne meglio ricavare indicazioni di struttura e di sistema.. Narrazione di una vicenda e descrizione di una struttura diventano, in questo modo, le opposte sponde di uno stesso fiume. Si passa ora più vicini all'una; ora all'altra. Ma l'occhio, per una buona navigazione, deve considerarle entrambe, tanto più se le rapide, le secche, i gorghi furono tanti e insidiosi, nella certamente ancora irrisolta questione del riconoscimento alla Musica di una piena cittadinanza nella cultura italiana.

Un libro come questo cerca quindi di rispondere a una duplice e intrecciata esigenza: da un lato la definizione di un sistema culturale nel quale la musica ha, bene o male, trovato la sua collocazione; d'altro lato e contemporaneamente, un contributo alla migliore definizione dello spessore culturale di questa specifica storia di eventi e di opere musicali, nelle diverse situazioni politiche ed economiche, nelle diverse mode e con i più diversi protagonisti.

Come in tutte le opere collettive che pretendano – come questa – all'organicità, le forze centrifughe rappresentate dalla pluralità degli autori devono trovare motivi di forte convergenza. Credo di poterli indicare, in successione. Innanzi tutto, mi appare condivisa l'idea stessa di un Novecento come sede primaria – nei più diversi ambiti artistici e culturali, così come nei più lontani paesi d'Europa e del mondo, del “moderno”.

Ne discende, poi, un'attitudine alla battaglia culturale che, erede per molti aspetti dei modi con cui l'Ottocento aveva elaborato i propri orientamenti collettivi, si radica nel modo stesso di concepire la cultura nel Novecento. E ciò accomuna sia chi brandisce il moderno come vessillo di rivoluzione, sia chi si adopera per scongiurarne la presenza e gli effetti.

Si giunge, così, al punto centrale di questo libro, che si volge all'aspetto riflessivo del “far musica” da parte dei musicisti italiani nel Novecento. Incombe, su tutti, la necessità di una collocazione, che non sembra poter più essere etero-determinata dai committenti, dalle predilezioni del pubblico, dalla propria appartenenza a una famiglia, a un ordine, a una funzione sociale. “Collocarsi” è voler trovare una giustificazione al proprio operato e alle proprie scelte. Ma, da operazione riflessiva e volontaria qual essa è, si affida a un'elaborazione che non sapremmo chiamare se non “culturale”, cioè rivolta al contesto e ai rapporti di senso tra quel contesto e il proprio operato particolare.

Che poi il singolo musicista abbia davvero saputo individuare queste coordinate è dipeso non poco dai modi della sua formazione, dalle occasioni che gli si sono offerte nei luoghi dove si trovava ad operare, dagli incontri e dalle letture, dalle amicizie e dalle parentele.

Sono, tutte queste, condizioni mutevoli in un secolo mutevole. Si ripresenta anche qui il dilemma se la seconda guerra mondiale abbia scavato davvero un fossato incolmabile tra le due metà di questo secolo. Il primo volume di questa collana, per il fatto di essersi attestato sugli anni di quella che sarebbe potuta apparire come una svolta, ha in realtà dovuto constatare che gli elementi di continuità (e non solo a livello politico e istituzionale) sono di gran lunga più importanti e numerosi di quelli contrari.

Molti autori di questo volume hanno in verità affermato una propria specifica maggiore competenza nell'uno o nell'altro versante rispetto all'evento bellico centrale. Ma poi, nonostante lo spartiacque, è risultato con chiarezza – a me sembra – che sono sostanzialmente gli stessi, nelle due metà del secolo, i meccanismi della formazione, dell'appartenenza a questo o quell'altro “schieramento”, dell'intreccio tra potere politico e carriere personali, tra creatività e ricchezza (o povertà), della disponibilità ai rapporti interpersonali o nelle comuni strutture di produzione. Può aver assecondato questo quadro improntato alla continuità la nostra scelta di dislocare in un futuro volume alcuni tratti caratteristici del secondo Novecento: l'impatto con le tecnologie, la nascita delle cosiddette “nuove professioni musicali”. E questi, ci si accorgerà, sono aspetti che, se meritori di informazioni specifiche da trattare con la dovuta ampiezza possibile in sede propria, non mutano di molto, sul piano della sostanza dei rapporti culturali, il quadro complessivo che qui ci siamo sforzati di tracciare.

Ci fu forse un tempo – ma non ne siamo del tutto sicuri – in cui i fatti e le opere si lasciarono inquadrare, docilmente, nel naturale flusso delle successive generazioni. Certamente – ne siamo certi – questo schema non è praticabile per le generazioni del Novecento. Lo storico deve addirittura rimuovere la continua tentazione di considerare “contemporanee” opere del 1950, a discapito di altre di cinquant'anni dopo ... La scansione del tempo è destrutturata.

Potremmo dire la stessa cosa in modo diverso. Un tempo fu forse possibile disegnare un campo di battaglia, con due eserciti schierati, lo scontro e la vittoria di uno dei due. Se mai ciò fu possibile, oggi certamente non lo è più. Quali sono davvero i motivi e i temi del contendere? Sono quelli coscientemente enunciati dai protagonisti (le “poetiche” dei gruppi e delle “scuole”) oppure quelli che, con il senno del poi, ci peritiamo di attribuire a chi, talvolta, si meraviglierebbe non poco di vedersi arruolato – armato di tutto punto di armi che ai suoi tempi, magari, non erano state neppure inventate – in questo o in quell'altro schieramento? Perché la metafora della guerra (“avanguardia”, “lotta”, “nemico”, “vittoria”) possa servire a qualcosa in termini di comprensione, si dovrebbe riuscire a capire chi è con chi, o contro chi. Ma chi fu davvero contro o a favore dei protagonisti della nostra vita musicale? Esistono davvero delle “eredità”, o tutti, sempre, hanno iniziato da capo?

Ci si immolò per la sprovincializzazione, o per l'antiaccademismo del “proibito proibire”. Ma poi? Si impone il sospetto che alcune avversioni tra gruppi o tra persone rispondessero a una semplice volontà di conquista di successi e di guadagni, o addirittura a semplici giochi di potere (il “potere” sui e nei Festival; nella programmazione RAI, nell'accaparramento delle direzioni artistiche).

C'è una tentazione molto forte: quella di poter uscire da questo groviglio gordiano con un taglio netto, limitandoci a guardare alle opere che ci rimangono e che testimoniano di per sé, per il fatto di esserci, o di esserci-ancora, il proprio valore e il valore della propria genesi. Ma ciò significherebbe premiare una seconda volta, nella Storia, chi ha trovato le sue fortune presso gli editori, gli impresari, i politici, la critica, il pubblico. Perché precludere alla storia del Novecento l'assaporamento persino sensuale del fare giustizia di ingiustizie, del riscoprire ciò che è rimasto sepolto, del rivendicare ciò che è stato negato? Insomma, per questa via il taglio gordiano sembra poter fare ben poco. Una storia che si rivolga solo alle opere si trova intatto il dilemma se farsi passiva esecutrice – cassa di risonanza – dei successi acquisiti, oppure se inerpicarsi sui vetri di una vicenda popolata di Carneadi, agghindati con gioielli su cui grava pur sempre il sospetto che siano patacche. Storia come tautologia (si parla di ciò di cui si è parlato o si parla); o storia come tribunale, in cui si dia per scontato che il successo è un crimine da espiare ... Non se ne esce, quindi, con una storia “della musica” che sia troppo autoreferenziale.

Temiamo che non ci siano scorciatoie nel nostro paziente lavoro di ricercatori di senso. Il groviglio, per essere districato, ha bisogno di un luogo dove essere fortemente e stabilmente collocato: e questo luogo non può che essere la mentalità di chi ha agito e operato, ed è giunto poi – per vie comunque mai del tutto esplicabili – a produrre eventi musicali e opere musicali. Nel titolo abbiamo voluto usare il termine che a molti appare ormai logorato di “cultura”. Non abbiamo assecondato la tentazione di cautelarci con la declinazione al plurale: “culture” avrebbe semplicemente spostato il problema, mettendo oltre tutto un'ipoteca sulla possibilità stessa di riuscire a edificare un quadro unitario. “Cultura”, al singolare, è un collocarsi nel mondo. C'è chi è così fortunato da esser nato già su alte vette, da cui abbraccia, quasi senza fatica iniziale, un vasto orizzonte. C'è chi quel panorama se lo deve conquistare con faticose ascensioni. Ma c'è anche chi si colloca senza troppi problemi nella piatta pianura, dove trova sicurezza e voglia di operare, tanto più se l'orizzonte è angusto (“nascondi le cose lontane”, chiedeva il poeta alla nebbia).

La cultura, così intesa, non permette graduatorie. C'è. In ogni caso. Va esaminata, capìta, forse anche collegata alle opere con legame di senso. Ma sappiamo che non ne garantisce la qualità. Quante vaste culture hanno generato opere mostruose, da tutti rifuggite con disgusto! Quante piccole culture hanno creato grandi miti, universalmente ammirati. Questo tipo di legame non è però nel cerchio delle intenzioni di questo libro. Si allontani, per ora almeno, il sospetto di un qualsiasi determinismo tra idea e opera. Occorre ancora questo lungo lavoro per capire dove e come il musicista italiano abbia trovato le occasioni storiche per essere se stesso e per operare. Ma poi, certamente, magari in un volume successivo di questa collana, bisognerà bene che si facciano i conti su quanto le occasioni siano state positivamente e pienamente trasfuse in creatività.

Guido Salvetti