Firenze-Fiesole, Centro Studi, via della Piazzola 71

20-22 settembre 1996

Programma e abstract

Venerdì 20 settembre

  • Sala A (ore 15.30)
    Percezione e simbologia (presiede Andrea Luppi)
    • Barbara Marignetti, L'allegoria dell'udito: possibile lettura iconologica. Abstract
    • Daniela Rota, La Magia acustica di Kaspar Schott: tra maraviglia barocca e Scienza Nova. Abstract
  • Sala A (ore 17.30)
    Istituzioni e storia locale (presiede Giancarlo Rostirolla)
    • Monica Castellani, Iconografia musicale negli affreschi dei pittori Baschenis in Trentino. Abstract
    • Luca Della Libera, La cappella musicale della Basilica di S. Lorenzo in Damaso nel Cinquecento. Abstract
    • Jean Grundy Fanelli, L'apprendimento, i contatti e gli impieghi locali dei fratelli Melani, di Rivani e di altri cantanti pistoleri. Abstract
  • Sala B (ore 15.30)
    Teatro nel Settecento (presiede Carlo Vitali)
    • Marco Bizzarrini, Musiche di Benedetto Marcello per una tragedia di Thomas Corneille. Abstract
    • Guido Olivieri, La produzione vocale di Pietro Domenico Paradisi. Abstract
    • Livia Pancino, Johann Adolph Hasse - Giovanna Maria Ortes: lettere ( 1760-1778). Abstract
  • Sala B (ore 17.30)
    L'Ottocento (presiede Cesare Orselli)
    • Carlo Lo Presti, Franz Schubert e il rovesciamento del sacro: echi di musica religiosa nella Winterreise. Abstract
    • Marina Mayrhofer, “Heimlich” ed “unhiemlich” nella drammaturgia del Freischütz di Carl Maria von Weber. Abstract
    • Luca Ferretti, Le trascrizioni operistiche per banda. Abstract

 

Sabato 21 settembre

  • Sala A (ore 9.30)
    Musica e gestione politica (presiede Alberto Basso)
    • Paola Besutti, Gestione del teatro per musica a Mantova durante gli ultimi ducati dei Gonza (1627-1707). Abstract
    • Bianca Maria Antolini, Musica e teatro a Roma negli anni della dominazione francese (1809- 1814). Abstract
  • Sala A (ore 11.30)
    Musica a Bergamo (presiede Maurizio Padoan)
    • Rodolfo Baroncini, “L'officio delle tenebre”: pratiche sonore delle Settimana Santa a Bergamo e Brescia tra Cinque e Seicento. Abstract
    • Paola Palermo, La musica nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo dal 1657 al 1711. Abstract
  • Sala A (ore 15.30)
    Belliniana (presiede Marcello Conati)
    • Pier Giuseppe Gillio, Vaccai, Bellini e il dramma degli amanti di Verona. Abstract
    • Armando Fabio Ivaldi, Scene genovesi per opere belliniane (1847-1849). Abstract
  • Sala A (ore 17.30)
    Aspetti del Novecento (presiede Guido Salvetti)
    • Carlo Migliaccio, La musicologia filosofica di Vladimir Jankelevitch. Abstract
    • Francesco Giomi, Scuole storiche di musica elettronica. Abstract
  • Sala B (ore 9.30)
    Repertorio vocale nel Cinquecento (presiede Nino Pirrotta)
    • Isabella Grisanti, Le Sacre lodi a diversi santi di Gastoldi. Abstract
    • Marco Giuliani, Villanelle alla napolitana e canzonette alla romana. Abstract
  • Sala B (ore 11.30)
    Musica tra Sei e Settecento (presiede Albert Dunning)
    • Daniele Torelli, Canto piano e canto fratto nei libri liturgici della Corsica. Abstract
    • Nicolò Maccavino, L'oratorio a Caltagirone nel Settecento. Abstract
    • Paola Chiarelli, Le composizioni per tastiera con accompagnamento: origini, forme e diffusione. Abstract
  • Sala B (ore 15.30)
    Musica a Milano (presiede Agostina Zecca Laterza)
    • Marina Toffetti, Giulio Cesare e Giovanni Battista Ardemanio musicisti a Milano nel primo Seicento. Abstract
    • Danilo Costantini-Ausilia Magaudda, La Gazzetta di Milano. Spoglio delle notizie musicali per gli anni 1669-1675. Abstract
  • Sala B (ore 17.30)
    Musica a Napoli (presiede Agostino Ziino)
    • Marta Columbro-Eloisa Intini, Congregazioni e corporazioni di musici a Napoli tra Sei e Settecento. Abstract
    • Francesca Menchelli Buttini, Due feste teatrali di Ranieri de' Calzabigi per Napoli. Abstract
    • Paolo Giovanni Maione-Francesca Seller, La trilogia dell'Adelaide: i nuovi percorsi della scena napoletana nei primi anni dell'Ottocento. Abstract

 

Domenica 22 settembre

  • Aula Magna, ore 9.00: Assemblea ordinaria dei soci SIdM.
  • Aula Magna, ore 12:30: Concerto degli Allievi Chigiani di quartetto di Piero Farulli, musiche di Brahms.

  • ore 15:30: Problemi di filologia musicale: tre tavole rotonde organizzate da Maria Caraci Vela.
    • Sala A: Musica strumentale da camera dell'Ottocento: alcuni percorsi della volontà d'Autore. Moderatore: Pietro Zappalà.
    • Sala B: I codici dell'Ars Nova italiana e le specificità della tradizione landiniana. Moderatore: Stefano Campagnolo.
    • Aula Magna: L'ecdotica dei testi musicali rinascimentali. Problemi di metodo vecchi e nuovi. Moderatore: Marco Mangani.

Abstracts

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Bianca Maria Antolini

Musica e teatro a Roma negli anni della dominazione francese (1809-1814)

La relazione intende illustrare le diverse attività musicali e teatrali che ebbero luogo a Roma nel periodo della dominazione napoleonica. La ricchezza della documentazione esaminata (libretti, periodici italiani e stranieri, diari, documenti da archivi pubblici e privati) ha consentito di seguire in modo capillare lo svolgersi degli eventi musicali, e di preparare una cronologia in cui sono registrate non solo le rappresentazioni operistiche, ma anche balli, accademie vocali e strumentali, concerti privati, manifestazioni religiose, esecuzioni di cantate celebrative per le più varie occasioni ecc. Una lettura della ricostruzione cronologica metterà in evidenza mutamenti e persistenze nelle manifestazioni musicali e nel tipo di repertorio proposto ai romani in quegli anni, e ne valuterà le eventuali relazioni con le esigenze del potere politico.

Inoltre, verranno presi in considerazione diversi aspetti di organizzazione e gestione dell’attività musicale e teatrale in quegli anni. In particolare, verranno esaminate l’attività della Consulta straordinaria per gli stati romani (tentativi di istituire una Cappella imperiale e un Conservatorio di musica, provvedimenti relativi all’editoria musicale e alle sovvenzioni in favore dell’attività teatrale,) e le vicende delle imprese che si susseguirono alla testa dei vari teatri di Roma (rapporti con le autorità per il finanziamento delle stagioni, organizzazione degli spettacoli, modalità di ingaggio di cantanti, compositori, ballerini). Si prenderà in esame anche la difficile situazione della musica sacra: l’attività delle cappelle musicali romane fu pesantemente condizionata dai tempestosi rapporti del governo francese con il clero di Roma. Infine, si cercherà di definire il ruolo di Roma – seconda città dell’Impero francese – nell’ambito più generale dell’attività musicale dell’Italia napoleonica.


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Rodolfo Baroncini

L’Officio delle Tenebre: pratiche sonore della Settimana Santa a Bergamo e Brescia tra Cinque e Seicento

L’uso estensivo che fin dal primo Cinquecento alcune cappelle ecclesiastiche dell’Italia settentrionale fecero degli strumenti musicali allo scopo di rendere più magnificenti e seduttive le celebrazioni liturgiche è un dato che, quantunque attenda ancora di essere definito in tutta la sua complessa fenomenologia, può dirsi generalmente noto e acquisito dalla odierna storiografia musicologica.

Sicuramente meno noto è invece che verso la fine del Cinquecento tale impiego divenne così pervasivo dall’investire perfino la liturgia della Settimana Santa: un ufficio che, fino ad allora, per il suo carattere penitenziale e di profonda e funerea compunzione era sempre stato estraneo a qualsiasi tipo di intervento strumentale, ivi incluso quello consueto dell’organo.

Documenti inediti concernenti il duomo e la basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo attestano infatti che a partire dal 1580-90 la pratica musicale della Settimana Santa (le Lamentazioni e i Responsori in polifonia che si eseguivano nel mattutino del Mercoledì, del Giovedì e del Venerdì santo) diviene via via più elaborata fino all’‘intrusione’ connotativa di uno specifico colore strumentale: gli unici strumenti ammessi risultano essere infatti “viole” (ovverosia strumenti di registro medio e grave della famiglia del violino) e, in sostituzione dell’organo, “arpicordi” o “chitarroni”.

Se la scelta di questa peculiare prassi sonora ha tutta la parvenza di un escamotage – un modo per aggirare il divieto vigente in tali occasioni nei confronti degli strumenti più consueti della prassi liturgica (tromboni, cornetti e organo) – non è azzardato riconoscervi motivazioni di tipo simbolico, connesse a tradizioni sonore devozionali risalenti almeno al tardo medioevo.

Comunque sia, l’uso delle “viole” e di un determinato registro sonoro nel triduo della Settimana Santa – una pratica che, come attestano altre fonti coeve, era largamente frequentata in tutta l’area padana (Brescia, Verona, Padova, etc.) – trova un’interessante conferma nelle raccolte a stampa di Lamentazioni e Responsori edite a partire dal primo decennio del Seicento. Le Lamentazioni di G.F. Capello (1612), di V. Bona (1616) e di F. Milleville (1624) altro non sono che una seriore realizzazione stilizzata di questa ventennale consuetudine: un dato che spiega le caratteristiche apparentemente ‘anomale’ di questi brani e che mostra ancora una volta come aspetti reputati normalmente ‘innovativi’ di certe opere siano in realtà il risultato di precedenti e ben sperimentate pratiche esecutive.


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Paola Besutti

Gestione del teatro per musica a Mantova durante gli ultimi ducati dei Gonzaga (1627-1707)

Ricerche approfondite, ma non sistematiche, compiute in tempi recenti in alcuni fondi (Mandati, Patenti, Scalcheria) dell’Archivio Gonzaga, hanno messo in evidenza una notevole vitalità del teatro per musica a Mantova anche durante la reggenza degli ultimi Gonzaga, periodo per consuetudine definito di ‘decadenza’ culturale.

Già questi primi sondaggi, seppur effettuati per campioni, hanno invece dimostrato come non di decadenza sia opportuno parlare, bensì di ‘diverse forme di gestione dello spettacolo’ che proprio in quegli anni si andavano gradatamente affermandosi.

Se si trattasse solo di questo, il caso mantovano non sarebbe eccezionale: altri ducati (si pensi anche solo a quello estense) vivevano infatti in quegli stessi anni analoghe trasformazioni. A rendere invece il caso in oggetto degno di interesse sono alcuni caratteri peculiari: l’iniziale assoluto monopolio gestionale della corte, l’insorgere di forme ibride di organizzazione divise fra corte e aristocrazia, la graduale collaborazione con l’impresariato professionale, la proposta degli spettacoli che da autonoma diviene via via sempre più ricettiva, ma soprattutto la caparbia difesa di una dignità curtense attraverso il controllo dei “virtuosi e virtuose del duca di Mantova”.

Il vaglio sistematico della corrispondenza fra Mantova e altre città particolarmente coinvolte nella produzione del teatro per musica, Venezia su tutte, ha permesso di chiarire sia i meccanismi produttivi, sia il grado di dipendenza da altri centri nella proposta degli spettacoli, sia le speciali forme di relazione che legavano i “virtuosi” alla corte di Mantova.

L’intervento intende offrire, attraverso la proposta di alcuni esempi mirati, un sintesi dei nuovi risultati acquisiti nel corso della ricerca.


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Marco Bizzarini

Musiche di Benedetto Marcello per una tragedia di Thomas Corneille

La biblioteca Marciana di venezia conserva il manoscritto degli Intermezzi e cori per la tragedia L. Commodo recitata da Nobili Accademici l’anno 1719 di Benedetto Marcello. Questa partitura – articolata in una sinfonia, due intermezzi comici (Spago e Filetta) e due cori tragici – presenta numerosi motivi di interesse, sondati solo in parte dalle precedenti indagini musicologiche (tra cui I. Mamczarz 1972, E. Selfridge-Field 1990). L’opus di Marcello costituisce uno dei pochi esemplari di intermezzi veneziani del primo ‘700 la cui musica sia giunta fino a noi: esso si pone come un ideale anello di congiunzione tra gli intermezzi di Gasparini, maestro del Marcello, e l’intermezzo napoletano che trova nella Serva padrona (1733) il suo paradigma. Ma la composizione marcelliana rappresenta un caso anomalo per almeno due motivi: a) la destinazione a un contesto accademico (e non teatrale), b) la collocazione tra gli atti di una tragedia in prosa (e non di un’opera seria) per la quale lo stesso Marcello intona due cori.

La ricerca ha finalmente permesso di individuare la fonte della tragedia ne La mort de l’empereur Commode (1658) di Thomas Corneille, tradotta in prosa italiana nel 1717. Il contributo propone per la prima volta un’ipotesi di distribuzione della sinfonia, dei due intermezzi e dei due cori per i cinque atti della tragedia, dal che scaturisce un’originale concezione drammaturgico-musicale. La relazione si sofferma inoltre sulla qualità della musica, sul libretto “pre-goldoniano” degli intermezzi e sul loro rapporto con il contemporaneo pamphlet Il teatro alla moda (1720).


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Monica Castellani

Iconografia musicale negli affreschi dei pittori Baschenis in Trentino

Oggetto del presente lavoro è lo studio, sotto il profilo organologico, degli strumenti musicali riprodotti negli affreschi dipinti nei secoli XV e XVI nelle valli del Trentino da un gruppo di pittori itineranti appartenenti alla famiglia dei Baschenis, provenienti dalla valle di Averara, nel Bergamasco. La loro prima apparizione nel Trentino occidentale risale al 1460, là essi operarono per circa un secolo, sino al 1555 affrescando numerose chiese e cappelle. Lavorarono anche nel Bergamasco. I diversi studi riguardo la storia e la genealogia dei Baschenis hanno riconosciuto due rami dinastici distinti fra loro, di non si è ancora chiarito quale sia il legame di parentelamolto breve, il secondo è quello che generò come ultimo dei pittori Baschenis il grande Evaristo o Guarisco (1617-1677). I Baschenis che operarono in Trentino furono in tutto otto, a volte non ben distinguibili l’uno dall’altro, dato lo stile molto simile. Gli elementi degni di nota negli affreschi dei Baschenis riportanti iconografia musicale sono i seguenti: dal punto di vista figurativo spesso si nota la ripetizione di modelli iconografici quali “Sant’Antonio”, “Angeli musicanti”, “Madonna in trono con bambino, angeli e santi”, “Re Davide”, “Padre eterno benedicente” e molto importanti le due raffigurazioni della “Danza macabra”; mentre dal punto di vista organologico e della prassi esecutiva gli elementi notevoli sono: un duo tamburino e flauto a una mano e triangolo, la particolare posizione dell’imboccatura nell’angolo della bocca (tipica del cornetto) nel flauto; un trio con flauti dolci e tamburello; interessante è la presenza dell’altobasso in duo con la ribeca, contrariamente alla prassi esecutiva del tempo; numerose sono le immagini che riportano la ribeca, ben 28, di cui una ribeca a spatola. Degne di nota sono anche le pive a vescica; tipiche raffigurazioni del tardo Medioevo delle zone subalpine. È raffigurata nella Danza macabra la cornamusa con attorcigliato sulla canna di bordone, una cordicella da cui pende un “fagottino a pera" che non è una decorazione ma un “silenziatore”. Questo lavoro, frutto di una tesi di diploma è stato il primo ad affrontare l’argomento dell’iconografia musicale in Trentino, secondo i criteri della catalogazione Cidim prendendo spunto dalla normativa redatta dall’ICCD e dal sistema di schedatura RidIM.


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Paola Chiarelli

Le composizioni per tastiera con accompagnamento: origini, forma, diffusione

Le composizioni per tastiera con accompagnamento di altri strumenti costituirono un genere diffusissimo nella seconda metà del Settecento: esse prevedevano una parte per tastiera a cui veniva aggiunto un accompagnamento all’acuto, affidato al violino o al flauto, e talvolta anche un accompagnamento al basso, affidato al violoncello; il termine ‘accompagnamento’ non ha in questo caso il consueto significato di sostegno armonico e strutturale, ma si riferisce piuttosto ad una parte che accompagna quasi in senso fisico, che suona assieme, e la cui funzione è legata più a convenzioni e circostanze di esecuzione che non alla forma musicale. Attraverso l’osservazione di un campione rappresentativo di composizioni di questo tipo, risultano infatti evidenti caratteristiche che rendono il genere e la sua produzione indissolubilmente legati ad un particolare pubblico, quello vastissimo degli amatori e dilettanti che tanto influenzò la composizione musicale nella seconda metà del Settecento.

I limiti cronologici del periodo di sua massima diffusione, collocabili tra gli anni ’60 e 80 del Settecento, portano il genere a sovrapporsi all’estrema produzione di sonate per cembalo solo da un lato, e alla nascita della sonata classica per strumento melodico e pianoforte dall’altro; risulta dunque interessante l’osservazione degli eventuali scambi e delle reciproche influenze tra queste tre forme di composizione.

Si prenderanno in considerazione, in particolare, sonate di Jean Cassanéa de Mondonville, di Johann Schobert, di Mattia Vento, e alcune composizioni di Giovanni Paisiello.


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Marta Columbro – Eloisa Intini

Congregazioni e corporazioni di musici a Napoli tra Sei e Settecento

L’argomento trattato dalla ricerca è lo studio delle attività musicali delle Congregazioni e delle corporazioni di musica a Napoli tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento. Circa un secolo di storia travagliata ma densa per Napoli, capitale europea della musica, dove corporazioni quali i Cantori e Musici della chiesa di San Giorgio maggiore, dei Trombettieri e Suonatori di fiato, dei Suonatori di trombette e ciaramelle, del Monte dei Professori di musica e Congregazioni come quelle di S. Nicola della Carità, di Santa Maria maggiore, della Chiesa del Gesù Nuovo, di Santa Cecilia e ancora dei Costruttori di mantici e corde di chitarra e corde di liuto, per citarne solo alcuni, operano parallelamente alle Confraternite, alle Opere pie, agli Istituti di carità, ai Conservatori e ai Teatri d’opera.

Lo studio in corso ha evidenziato la struttura di questi organismi in proficuo rapporto tra loro e con le istituzioni sopra citate: comparazione che ha offerto un taglio trasversale degli ordinamenti seicenteschi, mettendo in luce come il bisogno di creare forti gerarchie interne o rigorosi principi di selezione non sia solo una norma organizzativa, ma anche una necessità vitale di sopravvivenza e di incisività nelle attività musicali dell’epoca. Inoltre sono emerse le modalità della loro autogestione: dalla ripartizione del lavoro al procacciamento degli spettacoli, fino ai vari tipi di collegamenti che sapevano stabilire.

Si è infine rivolta l’attenzione anche alla fenomenologia sociale, che ha fatto apparire le maglie fittissime di una rete di relazioni storico-sociali-psicologiche tra i vari strati dela multiforme realtà napoletana, sulla quale ancora una volta incombe il male endemico della storia sociale di Napoli: la povertà, ma illuminata da un’intelligenza viva, fonte continua di creatività.

Essendo l’argomento carente di materiale bibliografico, il lavoro si è avvalso di fonti inedite d’archivio (atti notarili, fondi e spogli di libri bancari, stipulazioni dei contratti etc.) ed è tuttora in corso per gli spunti interessanti che continuamente offre. Il contributo, teso a dimostrare la fattività di tali organismi, è quello di delineare una mappa dettagliata dei luoghi, delle utenze e delle formazioni musicali che rendono la Napoli sei-settecentesca una capitale indiscussa della musica, non solo per il teatro d’opera, ma per tutti quei generi che vengono poco o mai citati e che invece sono presenti e regolarmente coltivati.


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Danilo Costantini – Ausilia Magaudda

La Gazzetta di Milano. Spoglio delle notizie musicali per gli anni 1669-1675

Lo spoglio delle notizie musicali tratte dalla «Gazzetta di Milano» è stato già effettuato per le annate superstiti del XVII secolo ad eccezione di quelle conservate presso la Biblioteca Vaticana (1669-1675). Il lavoro che proponiamo contribuisce a completare il quadro delle manifestazioni musicali sacre e profane e degli spettacoli nello Stato di Milano durante il governo spagnolo.

Le notizie musicali ricavabili dalla «Gazzetta» non sono importanti per i giudizi che esprimono sulle manifestazioni musicali, di solito molto generici e condizionati dalle esigenze del potere, quanto per datare gli spettacoli, ricostruire la storia di istituzioni musicali non ancora sufficientemente studiate, acquisire nuovi dati biografici. In particolare, lo studio del periodo 1669-1675 ci ha permesso di completare un primo abbozzo di cronologia degli spettacoli operistici al Teatro Ducale. La «Gazzetta» infatti fornisce sempre le date esatte delle prime rappresentazioni, non sempre ricavabili dai libretti, talvolta anche quelle delle repliche e delle ultime rappresentazioni. In più si trovano interessanti informazioni su scene, costumi, compositori, librettisti, committenti, pubblico.

Lo spoglio è inoltre corredato da un’interpretazione critica dei dati forniti dal giornale, tendente a mettere in rilievo l’importanza delle notizie e a collocarle correttamente nel quadro della vita musicale dell’epoca. Abbiamo infatti attuato, laddove possibile, un confronto con altre fonti allo scopo di individuare le informazioni che il settimanale spesso tace o sottintende e per poter evidenziare quanto aggiunge di nuovo: alcune notizie infatti non sono segnalate da altre fonti, e rimarrebbero sconosciute se queste annate della gazzetta non fossero state studiate.


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Luca della Libera

La cappella musicale della Basilica di S. Lorenzo in Damaso nel Cinquecento

Nonostante la fama e il particolare “stato” della basilica (annessa al Palazzo della Cancelleria apostolica), la bibliografia su tale istituzione è quasi inesistente, se si eccettuano gli studi relativi alle celebri esecuzioni corelliane patrocinate dal cardinale Pietro Ottoboni.

Il materiale archivistico studiato (conservato presso l’Archivio storico del Vicariato di Roma) è quasi del tutto sconosciuto alla comunità musicologica.

I documenti consistono essenzialmente in ricevute dei salari mensili dei cantori e dei maestri di cappella, pagamenti ad organisti e organari, acquisto di edizioni e manoscritti musicali per uso della cappella.

La ricerca ha raggiunto i seguenti risultati:

- la documentazione su un organismo musicale stabile a partire dal 1510;

- la ricostruzione dell’organico della cappella musicale per oltre un trentennio (1537-1571);

- l’identificazione dei cinque maestri di cappella e di una buona parte dei cantori; molti di loro, dopo il servizio prestato a S. Lorenzo in Damaso, furono attivi presso la Cappella Giulia e la Cappella Sistina;

- testimonianze sulla partecipazione della cappella musicale a importanti processioni e sul repertorio polifonico eseguito.

L’autore considera questa ricerca particolarmente significativa, data la scarsità di studi sulle cappelle musicali romane nel Cinquecento.


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Luca Ferretti

Le trascrizioni operistiche per banda

Caleidoscopico universo, oggetto dei più disparati interventi musicologici, il fenomeno bandistico in Italia offre ancora un fertile terreno virginale: le ‘trascrizioni operistiche per banda’.

Da alcuni anni siamo impegnati a svolgere ricerche, in ambito nazionale, sulla varietà di strategie e tattiche descrittive prodotte in tal senso: dalle strumentazioni bandistiche pedissequamente fedeli alla partitura lirica (basculanti fra la lievità delle singole Arie e la ponderosità di Atti integralmente tradotti) alle reificazioni più o meno stravolgenti la lectio originale (Fantasie, Rimembranze, Pot-pourri, Variazioni, Divertimenti…).

La prima gerla del bottino maggiormente significativo ha svelato essere colma di sorprese. Fra queste: 1) persistenza di topoi strumentali negli atti trascrittivi; 2) pressoché totale conservazione delle parti in stile recitativo – vs il luogo comune che ne dava per scontata l’espunzione; 3) gamma illimitata di escamotage nella gestione bandistica della musica-di-scena; 4) massima curatela timbrica in sede di doppiaggio dello strumentale solistico drammaturgicamente pregnante. Per tacere delle sbriciolature dei drammi fatti a brani, rimpastati in novelle trame operistiche, soggiacenti a codifiche ‘alte’ o di maniera, a seconda che vi agisca il genio di un Ponchielli ovvero la sterile accademia del filarmonico dilettante.

Questo, ma assai altro ancora, da una ricerca sita agli albori, tutta volta a creare nuovi modelli interpretativi, taluni già freschi di conio, per ri-leggere uno dei capitoli-chiave nella diffusione melodrammatica extra cavea: l’opera … in piazza, in un sol dire, ‘trasdotta’ e mimata en plein air attraverso la ‘Banda’.


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Pier Giuseppe Gillio

Vaccai, Bellini e il dramma degli amanti di Verona

Dopo l’esordio milanese, alla Canobbiana, nel novembre 1825, la Giulietta e Romeo di Nicola Vaccai ebbe per alcuni anni ampia accoglienza nei principali teatri d’Italia e d’Europa. E ciò fino a che le sue fortune non vennero infirmate dal successo dei Capuleti e Montecchi, intonati da Bellini su di un adattamento del medesimo libretto.

Di grande interesse – oltre che per intrinseco valore musicale, per l’esemplarità con la quale in essa si riflettono contraddizioni, ambiguità e fratture del periodo di trapasso dal melodramma classico a quello romantico – solo negli ultimi anni la più importante opera del Vaccai ha richiamato l’attenzione dei musicologi.

Alla storia della gestazione e alle peculiarità di scrittura della Giulietta e Romeo la nostra relazione di propone di offrire ulteriori elementi di conoscenza.

- Il primo aspetto considerato riguarda le ragioni dell’addizione politica che, assente nella novella di Bandello, era già introdotta nell’omonima tragedia di L. Scevola da cui il libretto è tratto: vicende biografiche di questo dimenticato tragediografo offrono una suggestiva spiegazione.

- Perché per tanto tempo l’ultima scena della Giulietta sostituisse quella dei Capuleti è fatto da ricondurre non soltanto a note contingenze, ma a precisi caratteri della scrittura musicale del Vaccai, che solo in questo luogo veniva meno a una più datata concezione della vocalità.

- Nel 1835, Vaccai rappresentava un’edizione riveduta e corretta dell’opera che però cadeva alla prima serata. Il ritrovamento della partitura di quest’ultima versione consente infine un’istruttiva collazione che evidenzia pretese e limiti del rifacimento.


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Francesco Giomi

Scuole storiche di musica elettronica

In Italia le esperienze di musica elettronica condotte a partire dagli anni Cinquanta presso lo Studio di Fonologia della RAI a Milano, fondato da Berio e Maderna, hanno rappresentato l’apice di una ricerca che ha portato a grandissimi risultati sia sul piano artistico sia su quello musicologico.

Ma già dai primi anni Sessanta l’attività italiana in questo settore poteva contare su alcuni luoghi alternativi di produzione che si sono distinti da quello di area milanese per le diverse impostazioni sul piano teorico e metodologico e la cui produzione ha riscontrato una notorietà relativamente minore sotto il profilo storico.

Si tratta, in particolare, delle scuole di Firenze, Padova e Torino, dove le esperienze musicali hanno ruotato attorno a compositori quali Pietro Grossi, Teresa Rampazzi ed Enore Zaffiri, veri e propri pionieri che hanno dato vita a momenti significativi e differenziati della riflessione linguistica elettroacustica. Si devono infatti ad alcuni di questi musicisti aspetti importanti della ricerca italiana sulle nuove tecnologie in musica, come le prime opere di computer music o l’applicazione al linguaggio elettronico di sintassi astratte basate su modelli generici.

Tra gli aspetti che hanno accomunato il lavoro dei tre laboratori, oltre all’interesse per le nuove modalità di produzione e fruizione della musica (si pensi per esempio al concetto di opera collettiva o di abbandono della proprietà intellettuale), vale la pena di citare il grande rilievo dato al versante della didattica della musica elettronica, considerata come momento centrale di una riflessione seria sull’uso delle nuove tecnologie in musica: sono state proprio queste esperienze a promuovere i primi corsi di musica elettronica nei conservatori italiani (per esempio quello di Firenze dal 1965),

La presente ricerca ha come obiettivo quello di far conoscere l’insieme delle idee e delle opere peculiari ai tre studi di produzione, anche attraverso l’indagine sui rispettivi archivi documentali, pressoché sconosciuti ma di grande rilevanza storico-musicologica ed estetica. Un settore dove, se si eccettuano alcuni scritti e documenti sulle esperienze fiorentine, si assiste ad una mancanza pressoché totale di studi e testi.


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Marco Giuliani

Villanelle alla napolitana e canzonette alla romana

Nell’ambito di un’indagine-censimento sull’intero corpus delle villanelle, canzonette e forme affini del 5-600, emerge che il filone più cospicuo di tale repertorio a cavallo tra i due secoli non ha un’identità geografica napoletana, come sembrerebbe suggerire la stessa denominazione formale dei brani, bensì romana.

Ciò emerge dai dati compositivi ricavati sulla base dei brani sopravvissuti di una vasta schiera di autorevoli musicisti gravitanti nell’orbita del più fervido mecenatismo pontificio tardo-rinascimentale.

La trascrizione in notazione moderna di oltre 200 brani di tali autori, attesta inequivocabilmente l’affermazione di uno stile ben caratterizzato rispetto alla villanella partenopea, che ebbe un successo editoriale (dunque di consumo) sorprendente, a tutt’oggi non ancora sufficientemente chiarito.

Numerose altre sillogi canzonettistiche del Nord Italia confermano la fortuna di tale repertorio ‘romano’, presentato agli studiosi in forma di database in un archivio di oltre 1300 capoversi, ciascuno dei quali illustrato e spiegato attraverso 18 diverse specificazioni.

La disponibilità contestuale di oltre 200 esempi di brani completi, perlopiù inediti, in partitura moderna, aiuta gli studiosi a mettere a fuoco meglio lo stile romano e conferma un percorso evolutivo di grande rilievo storico.

Molte le problematiche che debbono essere approfondite in sede opportuna di comunità musicologica: dalla natura del testo poetico alla tipologia del refrain letterario e musicale, comprendendo anche la possibile definizione dei segni di ritornello.

Natura programmatica e concatenata dei testi usati, loro circolazione extra romana, la sensibilità armonica nelle quinte parallele e nell’uso delle alterazioni, la mancanza della “caratteristica”, le segmentazioni binarie o ternarie, le conversioni-intavolature strumentali, eredità poetiche e sociologiche sono solo alcune delle tematiche che attendono una più solida definizione.

Lo studio mira inoltre ad illustrare (con esemplificazione diretta) come un nuovo approccio a tali forme con tecniche multimediali ed ipertestuali possa facilitare e rendere più avvincente la ricerca musicologica.


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Isabella Grisanti

Le Sacre lodi a diversi santi di Gastoldi

Lo studio prende in esame le Sacre lodi a diversi santi di G.G. Gastoldi; si inserisce in un più grande progetto di ricerca che si prefigge di analizzare tutto il repertorio sacro del compositore caravaggesco.

Di questa opera si propone l’analisi stilistica della musica e l’analisi stilistica, dei contenuti e metrica dei testi.

L’opera è la prima pubblicata della lunga serie di composizioni religiose di Gastoldi ed è uscita nel 1587, ma molto probabilmente fu scritta precedentemente su suggerimento del duca Guglielmo Gonzaga (cui è dedicata) per essere eseguita espressamente nella Basilica palatina di S. Barbara, In effetti, non è escluso (la ricerca è in atto) che esistano corrispondenze tra i santi della composizione e quelli cui sono dedicate le cappelle della Basilica.

Un’altra ragione stimola allo studio delle Sacre lodi: sono una delle pochissime opere religiose di Gastoldi con testo in italiano: ignorano le disposizioni del Concilio di Trento che ribadisce il latino come lingua ufficiale della Chiesa. Incuriosisce e stupisce questo fatto, perché il prete Gastoldi, maestro di cappella in S. Barbara partecipe dello spirito di conservatorismo in adesione alle norme tridentine, non si sottrasse nelle sue opere allo stampo tradizionalista e moderato della corte guglielmina; e inoltre, nella polemica sul rapporto fra dissonanza ed espressione, fu collocato dall’Artusi in un contesto tradizionalista, insieme con Merulo, Porta, A. Gabrieli e Palestrina.

Opera particolare quindi questa, che suscita attenzione per la sua ambiguità: opera sacra che sconfina nel profano, o opera profana che sconfina nel sacro? Il Vogel, nella Bibliografia della musica italiana vocale profana inserisce anche questa composizione; d’altra parte, essa è compresa nel RISM fra le opere religiose di Gastoldi.


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Jean Grundy Fanelli

L’apprendimento, i contatti e gli impieghi locali dei fratelli Melani, di Rivani e di altri cantanti pistoiesi

Nei primi decenni del XVII secolo Pistoia dette i natali a diversi castrati celebri, anche se la maggior parte di loro lasciò la città per trovare altrove notorietà e ricchezza. Il primo, Felice Cancellieri, operava a Vienna, alla corte degli Asburgo. Alcuni anni dopo, i fratelli Melani cantavano a Parigi e in altre corti d’Europa; sempre a Parigi si esibiva Antonio Rivani, più tardi chiamato alla corte di Cristina di Svezia a Roma. Non si trattò quindi di mera coincidenza se tanti cantanti di fama provenivano da Pistoia. Al riguardo la ricerca svolta sinora collega il successo dei Melani con la loro conoscenza della famiglia pistoiese dei Rospigliosi, ignorando sia la loro formazione professionalesia come realmente riuscirono ad ottenere degna accoglienza all’estero. Infatti, esistono prove di una più ampia prospettiva all’interno ed esterno della loro carriera artistica. Grazie soprattutto a Felice Cancellieri, i cantanti potevano disporre di un insegnamento specializzato, di sostegni e di collegamenti fra aristocratici pistoiesi e varie corti europee, così come, del resto, con la stessa corte papale in Roma. Ancora, la ricerca sui Melani ha sinora evidenziato soprattutto il loro successo fuori Pistoia.

Tuttavia, occorre ricordare come Jacopo e Bartolomeo, in particolare, abbiano svolto altresì un ruolo rilevante nella vita musicale della loro città natale, non solo presso la cattedrale, ma anche all’interno della confraternita dello Spirito santo, presso la Chiesa di San Domenico, e presso la Chiesa oratoriana di San Prospero.


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Armando Fabio Ivaldi

Scene genovesi per opere belliniane (1847-1849)

Quando le opere di Bellini raggiunsero anche i teatri genovesi, il massimo scenografo locale del tempo, Michele Canzio (?1788-1868), figlio di un “bombardiere” nell’esercito della ex Serenissima repubblica, era ormai quasi al vertice della propria carriera artistica e professionale. Lo studio particolareggiato delle fonti iconografiche e storiche a cui attinse, i più importanti scenografi del tempo a cui si ispirò come modelli, le sue innovazioni nei criteri di rielaborazione di schemi compositivi e decorativi altrui e di provenienza soprattutto milanese, ha consentito di ricostruire le varie tappe della sua formazione artistico-culturale e l’originalità delle sue invenzioni negli anni 1830-50, periodo in cui Canzio si propose anche come architetto di giardini.

Le scene che egli realizzò al teatro Carlo Felice di Genova per alcune riprese di opere belliniane come Beatrice di Tenda, I Puritani, ma sopratttto Norma, negli anni politicamente caldi 1847-1849, appartengono al periodo della sua maturità artistica. La loro analisi critica, se da un lato consente di valutare al contempo il favore di cui Bellini godette presso il pubblico genovese prima dell’avvento di Verdi, dall’altro ci rende possibile verificare, in modo circostanziato, interessanti casi di “riuso” di scenari inventati in anni precedenti e uno studio sulla tipologia scenografica che Canzio venne elaborando, per l’opera, nel decennio precedente il suo ritiro dall’attività artistica e dalla carica di direttore degli allestimenti scenici del Carlo Felice (1850).


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Carlo Lo Presti

Franz Schubert e il rovesciamento del sacro: echi di musica religiosa nella Winterreise

La ricerca prende l’avvio dall’individuazione di alcune citazioni o rielaborazioni di frammenti di musica sacra in alcuni Lieder della seconda parte della Winterreise: il corale protestante “Wachet auf, ruft uns di Stimme” risuona chiaramente nell’ultima sezione di Im Dorfe, la linea del canto di Das Wirtshaus sarebbe riconducibile, secondo Georgiades, al Kyrie della messa per i morti gregoriana, Die Nebensonnes riprende il Sanctus della Deutsche Messe D 872. Ognuno dei tre casi andrà analizzato per proprio conto, poiché mette in gioco repertori e modi d’elaborazione differenti, ma è subito chiaro come questi rimandi non si limitino ad una contaminazione di generi musicali, ma incidano sulla lettura schubertiana dei testi poetici e sul “messaggio” affidato ai Lieder. Assistiamo infatti in questi Lieder ad un rovesciamento delle situazioni topiche evocate dai canti religiosi citati, che produce la scoperta dell’assenza di Dio e la percezione dell’impossibilità di una salvezza su questa terra. I Lieder in questione sono quindi cruciali per comprendere il significato di tutto il ciclo della Winterreise.

Scendendo nello specifico, dovremo verificare quale conoscenza potesse avere Schubert del corale protestante, in un ambiente fortemente legato al cattolicesimo, come quello della Vienna di Metternich. Due brani corali su testo di Klopstock, composti entrambi il 9 marzo 1815, Nun lasst uns den Leib begraben D 168 e Jesus Christus unser Heiland, der den Tod überwand D 168 A, in realtà non sono altro che corali protestanti nella versione approntata dal poeta per “migliorare” (secondo la pratica settecentesca della Verbesserung praticata ancghe dall’abbé Vogler, sui corali bachiani) i testi originali. Il materiale melodico impiegato e un lapsus dell’autore (Schubert aveva iniziato a scrivere il testo utilizzando le parole del titolo Nun lasst uns den Leib begraben che invece non corrisponde all’incipit della versione di Klopstock) ci fan supporre che Schubert abbia avuto sotto gli occhi non solo il testo di Klopstock, ma anche un libro di corali che, secondo le consuetudini dell’epoca, sotto i singoli titoli, riportava la musica senza il testo. Poiché il manoscritto in cui compare il D 168 contiene musiche su testi di Theodor Körner, possiamo supporre che i due corali servissero per una commemorazione funebre della partenza di Körner da Vienna (15 marzo) nell’anno della sua morte (1813), sul modello di quella tenutasi l’anno precedente (1814).

Per quanto riguarda Das Wirtshaus va osservata la somiglianza del tipo di scrittura “corale” impiegato con le formule di accompagnamento che i trattatisti di canto fratto consigliano per accompagnare la formula salmodica del I modo. L’ascendente diretto di Schubert in questo campo sembra essere Michael Haydn, al quale bisogna rifarsi anche per comprendere le caratteristiche della Deutsche Messe, scritta fra la primavera e l’autunno del 1827 su testo di Johann Philipp neumann, un insegnante di fisica che aveva commissionato l’opera. La ripresa del Sanctus come “tema” del Lied Die Nebensonnen conferma le valenze religiose della lettura schubertiana del testo di Müller (con l’accostamento dei simbolismi trinitari del Sanctus al tramonto dei tre soli).

Dovremo quindi esaminare non solo quale è l’atteggiamento di Schubert nei confronti di tradizioni musicali del passato (corale protestante, gregoriano, messa “tedesca” ecc.), ma studiare in che modo elabora i frammenti musicali “sacri”, piegandoli ad esprimere alcune valenze piuttosto che altre del testo poetico di Wilhelm Müller, anch’esso intessuto di immagini religiose.


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Nicolò Maccavino

L’oratorio a Caltagirone nel Settecento

Recenti studi musicologici hanno documentato, specie per i secoli XVI e XVII, la rigogliosa vita musicale di Caltagirone, ricca città demaniale della Val di Noto, al cui servizio operarono musici del calibro di Pietro Vinci, Achille Falcone e Antonio il Verso.

Altrettanto importante si è rivelata l’attività musicale calatina durante il XVIII secolo: attività che, grazie all’abbondanza di fonti archivistiche e bibliografiche, si è potuta ricostruire e descrivere con precisione, evidenziandone le peculiarità.

In tal senso segnaliamo l’enorme fortuna che il genere dell’oratorio godette nella città per l’intero secolo, tanto da farne, dati alla mano, uno dei centri più importanti della Sicilia orientale, per ciò che concerne la produzione e l’esecuzione di oratorii. Quanto appena affermato è, a mio parere, uno dei risultato più interessanti della ricerca che servirà ad approfondire la conoscenza della locale storia musicale e, cosa più importante, ci permetterà di aggiungere un altro tassello alla storia dell’oratorio in Sicilia nel XVIII secol, una storia che è ancora tutta da scrivere.

Nel corso della relazione si esporranno i risultati della ricerca inerenti l’attività oratoriale. Nella fattispecie: le varie occasioni, i luoghi di esecuzione, i protagonisti. Si daranno inoltre indicazioni precise sui libretti e sulle musiche conservatesi (queste ultime recentemente rinvenute) che saranno oggetto di articolare analisi. Si condurrà infine una disamina comparativa tra la produzione calatina e quella coeva della città di Piazza Armerina.


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Paologiovanni Maione – Francesca Seller

La trilogia dell’Adelaide: i nuovi percorsi della scena napoletana nei primi anni dell’Ottocento

La trilogia dell’Adelaide (Comingio pittore, Adelaide maritata e La morte di Adelaide), prodotta nel secondo decennio dell’Ottocento sulle scene partenopee dal binomio Andrea Leone Tottola e Valentino Fioravanti, è illuminante per verificare quei germi di novità che, inaspettatamente, anticipano gli elementi della drammaturgia romantica in quelle operose fucine rappresentate dai cosiddetti teatri minori napoletani.

Pur permanendo il tradizionale assetto della cosiddetta opera buffa, si avvertono mutamenti drammaturgici sostanziali – concreti prodromi del romanticismo –, riscontrabili in modo palese nell’apparato scenografico, naturalmente immerso in condizioni atmosferiche di grande suggestione emotiva. All’aura romantica si sovrappongono e si interpolano l’attualità storica, il gioco parodico, gli echi metastasiani.

Attraverso le tre opere si assiste ad un graduale processo innovativo, in cui alle immagini auliche della librettistica di matrice settecentesca si sommano suggestioni romantiche.

Lo stesso aspetto formale subisce fondamentali rimaneggiamenti: le strutture musicali, l’orchestrazione e l’assetto vocale presentano interessanti sconvolgimenti, passando da rassicuranti e collaudati modelli ad ardite soluzioni, ricche di suggestive evocazioni, destinate a confluire in una nuova tipologia spettacolare.


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Barbara Marignetti

L’allegoria dell’udito: possibile lettura iconologica

Le incisioni di Cornelis Cort da Frans Floris e di Adriaen Collaert da Maarten de Vos (Anversa, Stedelijk Prentenkabinet, seconda metà del Cinquecento) propongono con le medesime caratteristiche la rappresentazione dell’allegoria dell’udito. Il cartiglio o motto che le introduce definisce l’immagine come personificazione della percezione auditiva, che in entrambe le incisioni è rappresentata da una donna che suona, circondata da strumenti musicali ai piedi e affiancata da un cervo. I repertori iconologici di Cinquecento e Seicento (per esempio quelli di Giraldi, Cartari, Valeriano, Ripa), soggettari del linguaggio figurativo dell’epoca, consentono di decifrare ciascuno di questi attributi, risalendo alle fonti da cui la rappresentazione deriva. Si stabilisce infatti uno stretto rapporto tra immagine e studi sull’udito dei teorici del tempo, diramati in trattati filosofici, teologici, medici e di teoria musicale. L’allegoria dell’udito non è che tradizione figurativa di alcuni aspetti di tale tradizione teorica. Di particolare interesse è la sintesi della simbologia di Ars Musica come quella auditiva. Osservando l’occorrenza di tale allegoria nei repertori emblematici e iconologici cinque-secenteschi, è possibile valutarne la fortuna dell’iconografia e del significato teorico che essa simboleggia.


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Marina Mayrhofer

“Heimlich” e “unheimlich” nella drammaturgia del Freischütz di Carl Maria von Weber

L’applicazione dell’aggettivo heimlich (domestico, familiare) alla prima scena del II atto (n. 6, duetto, e n. 7, arietta di Aennchen) del Freischütz di Weber è utile ad individuare le modalità d’impianto, che diversificano tutta la prima sezione del II Atto (scena I-III, nn. 6-9) dalla seconda (Scena IV, n. 10, Finale “Wolfschlucht”). L’inizio del II atto propone, infatti, una scena d’interni dove tutto, dalla scenografia al trattamento delle voci femminili, suggerisce un’atmosfera familiare e rassicurante. Eppure alcuni segnali, provenienti dagli stessi oggetti che arredano l’ambiente, suscitano inquietudine e, subdolamente, l’arcano, l’unheimlich, s’insinua nella processualità drammaturgica delle scene citate. La tecnica, qui escogitata da Weber, a fronte di determinate tipologie teatrali, che rimandano a modelli francesi, soprattutto della coeva opéra comique, trova riscontro in analoghi criteri narrativi, adottati da E.T.A. Hoffmann in molti dei suoi racconti (cfr. in specie Der Sandmann). A riguardo, studi specifici (H.E. Valentin, 1976, A. Gueullette 1985) hanno affrontato questo aspetto della tecnica teatrale weberiana, rilevando, particolarmente nella prima sezione del II atto del Freischütz, la coesistenza di elementi reali e fantastici in una struttura dalle coordinate pur sempre tradizionali.

A nostro parere, nel repentino passaggio dall’heimlich all’unhemlich (suscettibile inoltre del principio di reversibilità) utilizzato da Weber tra queste due dimensioni, è possibile scorgere il dato più autenticamente “nazionale” dell’opera di Weber, secondo quanto, a proposito di Hoffmann e in un ambito esclusivamente letterario, ha indicato G. Bevilacqua in un recente saggio. Un’indagine, in questo senso, prende spunto, inoltre, dall’assunto di Dahlhaus, “non sarebbe affatto assurdo considerare il tipo d’opera rappresentato dal Freischütz una variante dell’opéra comique” e intende riesaminare la problematica relativa al carattere nazionale dell’opera.


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Francesca Menchelli Buttini

Due feste teatrali di Ranieri de’ Calzabigi per Napoli

Negli anni ’40 Calzabigi si trova a Napoli, dove debutta come poeta teatrale nel 1745 con L’impero dell’universo diviso con Giove, a cui segue nel 1747 Il sogno d’Olimpia. Il primo componimento celebra il matrimonio tra il delfino di Francia e Maria Teresa di Spagna, il secondo la nascita dell’erede al trono di Napoli. Di questi eventi festivi danno notizia due ‘relazioni’ contemporanee (rispettivamente Relazione delle feste fatte in Napoli per le nozze del Real Delfino, e Narrazione delle solenni reali feste fatte celebrare in Napoli da Sua Maestà il Re delle due Sicilie Carlo Infante di Spagna duca di Parma, Piacenza, ecc. per la nascita del suo primogenito Filippo real principe delle Due Sicilie) in cui le rappresentazioni dei due libretti di Calzabigi sono ampiamente descritte.

Si apre così un problema terminologico e di genere: mentre sul frontespizio del libretto L’impero dell’universo diviso con Giove viene definito “componimento drammatico”, ed il Sogno d’Olimpia “festa teatrale”, le suddette Relazione e Narrazione usano il termine ‘serenata’ per entrambi. La discussione sul problema dei rapporti tra ‘feste teatrali’, ‘azioni teatrali’, ‘serenate’, ‘componimenti drammatici’ è stata affrontata in particolare da Raymond Monelle (1974), ma la tipologia che egli propone non è del tutto soddisfacente, o almeno si dimostra lacunosa soprattutto per realtà musicali profondamente diverse da quella viennese e metastasiane, su cui lo studioso concentra tutta l’attenzione. Il fatto che diversi termini possano definire uno stesso libretto dipende da una flessibilità terminologica assai comune nelle fonti settecentesche: ‘componimento drammatico’ e ‘festa teatrale’ si riferivano molto probabilmente alla poesia, mentre ‘opera’, ‘serenata’ descrivevano l’evento totale della rappresentazione musicale. Meriterebbe infine un’analisi più approfondita – sempre rifacendosi a Monelle – il rapporto tra opera italiana del Settecento, festa teatrale e opere della riforma: la festa teatrale metastasiana è un caso troppo particolare perché possa prestarsi a più ampie generalizzazioni. È probabile che l’ipotesi di Monelle vada circoscritta a più precisi cardini temporali e geografici, in relazione alle differenti realtà musicali locali.

Questa relazione si propone quindi di contribuire alla conoscenza del “giovane” Calzabigi e di inquadrare contemporaneamente i due componimenti per Napoli in un più ampio problema di ‘genere’, sempre tenendo presente che il punto di riferimento del librettista livornese è ancora, per il momento, Metastasio.


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Carlo Migliaccio

La musicologia filosofica di Vladimir Jankélévitch

La particolarità dei testi musicologici di Vladimir Jankélévitch – dedicati a Debussy, Ravel, Fauré, Satie, Chopin, Rimski-Korsakov e altri – consiste innanzitutto nell’equilibrio tra le tematiche filosofiche e l’attenzione precipua alla musica, anche dal punto di vista strettamente tecnico. Vi è inoltre una precisa adesione alla poetica e alla “visione del mondo” di questi musicisti, rapportata anche alle fonti letterarie su cui essi si basano.

Ma ciò che vi è di più interessante, e finora non sottolineato dalla critica, è un particolare percorso teorico-filosofico, che Jankélévitch riesce a far emergere dallo studio analitico di ogni musicista di riferimento e che egli rapporta adeguatamente alla propria concezione etica e metafisica. Questo percorso può essere rappresentato dai binomi finzione – verità, occultamento – disvelamento, illusione – disillusione: la musica, secondo Jankélévitch, vive nell’oscillazione tra questi estremi e nel paradosso della loro copresenza. I musicisti da lui considerati hanno in comune la capacità ironica di sottrarsi a ogni unilaterale sguardo critico, all’estetica e ai gusti dominanti, proponendo o il piacere fine a se stesso del divertissement, del pastiche e del travestimento, o irrigidendo il proprio linguaggio in forme ostentatamente fastidiose e aggressive. La sottile disamina jankélévitchiana si propone quindi di sondare intenzioni nascoste, motivazioni latenti, indici di una pudica espressività, da lui ricondotta alle categorie dell’innocenza e dello charme.

In tal senso la peculiare musicologia del filosofo francese si pone in trasgressiva alternativa rispetto alle più consuete metodologie filosofiche e analitiche – per esempio quella adorniana – rivelando una indubbia freschezza e un’apertura di prospettive, tali da poter suscitare oggi più di un motivo di interesse.


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Guido Olivieri

La produzione vocale di Pietro Domenico Paradisi

La ricerca intende far luce sul alcuni aspetti, finora poco considerati, dell’attività compositiva di Pietro Domenico Paradisi. Il lavoro si è articolato in due fasi: raccolta e riorganizzazione delle testimonianze finora conosciute che sono state successivamente integrate con tutte le informazioni da me ricavate nel corso di uno studio sistematico consentendo così di chiarire alcune delle circostanze legate alla produzione e alla biografia di Paradies.

In particolare sono stati presi in considerazione i documenti relativi alla permanenza del compositore a Londra fra il 1740 ca. e il 1780 ca., la sua attiva presenza nella vita concertistica e teatrale della capitale inglese e i legami con l’aristocrazia locale.

Si è appena individuata la partecipazione di Paradies alla produzione di un intermezzo comico che godette di una discreta popolarità, entrando a far parte del repertorio della compagnia guidata da Pietro Mingotti.

Sono emerse circostanze che sembrerebbero provare una posizione di preminenza occupata da questo compositore nell’ambito delle realtà musicali lucchese e veneziana.

I risultati già raggiunti, che lasciano intravedere ulteriori direzioni di ricerca, offrono un quadro più circostanziato della ricezione dell’opera di questo autore e delle ragioni che spinsero i suoi contemporanei, di volta in volta, ad apprezzarla o a respingerla.


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Paola Palermo

La musica nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo dal 1657 al 1711

L’intero lavoro, di carattere storico archivistico, è costituito complessivamente da 1094 pagine; l’argomento della ricerca svolta riguarda la ricostruzione, attraverso un numero estremamente ricco di documenti trovati, trascritti e inquadrati storicamente appartenenti all’Archivio della Misericordia maggiore di Bergamo, dell’attività musicale della cappella della Basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo nel periodo cmpreso tra il 1657 e il 1711.

I risultati ottenuti da tale ricerca hanno permesso di ricostruire l’attività musicale di una così celebre e prestigiosa Cappella tra la seconda metà del 1600 e i primi anni del 1700 e di rimpolpare le compendiose menzioni riportate nei dizionari bio-bibliografici riguardanti la vita privata dei componenti l’organico della Cappella stessa; addirittura moltissimi nomi citati nei documenti sono completamente ignoti alla storia della musica odierna, ma ciò non significa che nella loro epoca non siano stati conosciuti e largamente apprezzati.

Grazie a tale ricerca sono stati rinvenuti anche due documenti inediti, il primo dell’aprile e il secondo dell’agosto del 1710, riguardanti il musicista Pietro Antonio Locatelli, che anticipano il suo esordio presso la Cappella della Basilica di Santa Maria Maggiore in qualità di violinista di ben 9 mesi rispetto ai documenti finora scoperti.


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Laura Pancino

Johann Adolph Hasse – Giovanni Maria Ortes: lettere (1760-1778)

Lo studio che ha come oggetto questo carteggio ne comprende la trascrizione integrale e annotata, con indici dei nomi e delle opere citate.

Giovanni Maria Ortes (Venezia 1713, ivi 1790) monaco camaldolese noto oggi soprattutto come economista, si occupò di musica non solo da dilettante ma da teorico e storico erudito; è autore di cinque drammi per musica e di due opere sul teatro musicale. Nel 1771 ricevette a Venezia Leopold Mozart con i due figli, in quanto amici raccomandatigli da Hasse; le lettere relative a questo episodio sono le uniche già edite [in Barblan – Della Corte, Mozart in Italia, Ricordi s.d. (1956)].

L’intero carteggio è interessante oltre che per dati biografici su Hasse, soprattutto perché fornisce una visione panoramica della vita musicale dell’epoca. Le informazioni in esso contenute sono narrate nello spirito di uno scambio di novità tra amici, e riguardano gli aspetti più vari. I due corrispondenti si aggiornavano a vicenda su quanto di nuovo o notevole c’era nella vita delle istituzioni musicali delle città dove risiedevano, Venezia e Vienna, scambiandosi notizie sul personale musicale delle istituzioni, su importanti concorsi per incarichi musicali, sulle nuove musiche ascoltate, sull’apertura di nuovi teatri ecc.

Vera miniera di notizie relative alle vicende del teatro musicale, le cronache teatrali di queste lettere nominano opere con date, autori, interpreti ed esiti, riferendo a volte particolari come le modalità dei contratti e dei pagamenti dei cantanti. Vi si legge anche qualche appunto sulla vocalità e sulle possibilità di alcuni interpreti come erano considerate da un compositore che per essi scriveva.


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Daniela Rota

La Magia acustica di Kaspar Schott: tra maraviglia barocca e Scienza nova

Il trattato latino De Magia acustica pubblicato nel 1657 dal gesuita tedesco Kaspar Schott (1608-1666) – di cui si è curata la traduzione e l’edizione critica – è razionalmente distribuito in sette libri (De Magia: Phonologica, Phonocamptica, Echotectonica, Phonotectonica, Phonurgica, Phonojatrica, Musica, Symphoniurgica) e fantasiosamente calato nell’immaginifica atmosfera del Barocco, con le istruzioni per la costruzione e l’uso di stupefacenti marchingegni architettonici, meccanici, pneumatici ed idraulici che permettono di far riecheggiare le sale e i cortili, di far parlare le statue, suonare le fontane, cantare asini e gatti di stazza e registro differenti, comporre e suonare musica senza conoscerla affatto. Il trattato è quel che si suol definire un’opera di compilazione: attinge a piene mani da 204 diverse fonti, idealmente affastellate a formare una vera e propria biblioteca di Don Ferrante, nella quale trovano posto indifferentemente antichi e moderni, eruditi, scienziati e maghi, in una ridda vertiginosa di citazioni e rimandi bibliografici di seconda, di terza e talvolta di quarta mano. Eppure, proprio la scarsa originalità del contenuto (in buona parte mutuato dalla Musurgia di Athanasius Kircher, del quale Schott fu allievo, amico, ammiratore e collaboratore) fa della Magia acustica un documento preziosissimo (per certi versi unico) di uno dei fenomeni forse più importanti e complessi della storia culturale europea: la difficile transizione da Aristotele a Galileo, dall’Ipse dixit alla Scienza nova. Ed è un documento tanto più prezioso in quanto vi si ritrova, forse per l’ultima volta nella storia della cultura moderna, quel respiro enciclopedico, quel taglio didattico e quell’afflato divulgativo che proprio la vittoria della scienza moderna, induttiva e specialistica avrebbe di lì a breve definitivamente soffocato.


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Marina Toffetti

Giulio Cesare e Giovanni Battista Ardemanio musicisti a Milano nel primo Seicento

La storia della musica milanese tardorinascimentale si presenta oggi come un mosaico di contributi – in massima parte tesi di laurea – per lo più irrelati e dedicati ad alcune figure isolate (si pensi agli studi su Giovan Paolo Cima, Michel’Angelo Grancini o i fratelli Rognoni). I lavori sul cosiddetto ‘tessuto connettivo’ si contano sulla punta delle dita, così come si conosce ancora poco sulla struttura delle cappelle musicali, sul numero dei musici che ne facevano parte, sui relativi compensi e sul repertorio eseguito. In simili circostanze diventa arduo anche valutare la statura dei personaggi più in vista. A questo si aggiunga che spesso si sa troppo poco persino sulle figure che allora avevano rivestito incarichi di primo piano presso le principali istituzioni musicali della città.

Proprio i quest’ultima categoria rientrano i fratelli Giulio Cesare e Giovanni Battista Ardemanio, due figure assai in vista nel primo Seicento musicale milanese, ma oggi quasi completamente dimenticate dagli storici della musica (Giovanni Battista in primis, che nei principali dizionari ed enciclopedie musicali non viene neppure menzionato, e di cui non ci è pervenuta neppure una composizione): eppure di Giulio Cesare, autore tra l’altro di una pastorale (ignota al RISM) eseguita nel collegio gesuitico a Brera nel 1628, si sa che fu organista nientemeno che presso la Corte Regia Ducale e nella collegiata di Santa Maria della Scala, mentre il fratello Giovanni Battista vi svolgeva le mansioni di maestro di cappella.

La figura di quest’ultimo, un personaggio di cultura a dir poco poliedrica, presenta ulteriori motivi di interesse: come ci ricorda anche Filippo Picinelli, egli si dedicò tanto alle “dottrine sode”, ossia alla teologia, che agli “studi geniali” in campo astronomico, che alle “arti amene” nelle quali si distinse come “suonatore di viola esquisitissimo”.

Lo studio intrapreso per illuminare le figure dei due fratelli si è spinto oltre i ristretti ambiti dell’indagine biografica, estendendosi alla chiesa di Santa Maria della Scala, all’Accademia dei Cassinensi inquieti (che Giovanni Battista aveva frequentato sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1594) e alla corte spagnola (nel breve periodo in cui si insediò in Valladolid), attraverso una serie di indagini svolte presso l’Archivio di Stato di Milano, l’Archivio storico diocesano, l’Archivio storico civico, la Biblioteca Trivulziana e la Biblioteca Nazionale Braidense e integrate da ulteriori informazioni rinvenute presso l’Archivio General di Simancas.


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Daniele Torelli

Canto piano e canto fratto nei libri liturgici della Corsica

Nell’ambito di un più vasto programma di ricerca sul canto piano in Italia tra i secoli XVI e XVIII, riguardante sia l’insieme delle fonti teoriche, sia repertori musicali specifici di particolare rilievo per l’individuazione di alcuni tratti dell’evoluzione del canto “gregoriano”, ho avuto l’occasione di curare la catalogazione dei fondi musicali delle biblioteche e archivi della Corsica. La parte più cospicua del materiale librario da catalogare è costituita da libri liturgici con canto, dai contenuti più diversamente organizzati e capaci di offrire uno spaccato sull’evoluzione del repertorio in canto piano e in canto fratto praticato nell’isola nei secoli XVII e XVIII. Importa sottolineare che il canto fratto e il canto piano di questo periodo sono due dei fenomeni musicali in assoluto meno considerati dalla ricerca musicologica. Si tratta, inoltre, di un’occasione abbastanza unica per verificare sistematicamente la validità degli strumenti catalografici, soprattutto relativamente ai manoscritti più compositi e miscellanei, e in quanto i libri liturgici con canto sfuggono troppo spesso alla catalogazione musicale.

I libri di canto della Corsica mostrano chiaramente l’importanza sempre maggiore che viene ad assumere il canto fratto, in particolare nell’Ordinario della Messa, e la ricchezza di questo repertorio, continuamente ampliato da nuove composizioni, dovute soprattutto all’ambito francescano.

Il canto fratto e la pratica mensurale influenzano pesantemente anche il più tradizionale repertorio di canto piano rappresentato nelle fonti corse, nella cui notazione si distinguono sempre più chiaramente significati proporzionali riferiti alle figure della notazione quadrata dei libri corali.

I libri corsi presentano, infine, un interessante repertorio in polifonia, le cui caratteristiche sono variamente riconducibili alla pratica del falsobordone, al cantus planus binatim o alla paghjella della tradizione popolare corsa.