Firenze, Centro Studi, via della Piazzola 71

27-29 ottobre 1995 

Programma e abstract

Venerdì 27 ottobre. Sala A (ore 15.30), Aspetti di musica strumentale, presiede Franco Piperno

  • Maria Grazia Baroni, Le Fantasie a 4 del ms. Vaticano Chigiano Q.VIII.206 attribuite a Luzzaschi. Abstract.
  • Giovanna Sgaria, Alcune osservazioni sulla strumentazione dei concerti di Giovanni Mossi ( ca. 1680 - 1742 ). Abstract.
  • Maurizio Mura, La riduzione degli ambiti melodici nelle mazurke di Chopin: un criterio compositivo non esplorato. Abstract.

Venerdì 27 ottobre. Sala B (ore 15.30), Istituzioni musicali tra Sei e Settecento, presiede Agostino Ziino

  • Sonia Tamagni, Sul Seicento musicale a Cremona: contributi di Tarquinio Merula per l'Accademia degli Animosi. Abstract.
  • Marta Columbro, Didattica e pratica musicale nelle “pie congregazioni” napoletane (comunicazione). Abstract.
  • Jean Grundy Fanelli, La musica patrocinata dai Rospigliosi: il Casino dei nobili di Pistoia. Abstract.

Venerdì 27 ottobre. Sala A (ore 17.30), Produzione musicale e spettacolo, presiede Bianca Maria Antolini

  • Marina Toffetti, Alcuni documenti inediti sui fratelli Tini, editori musicali a Milano ( 1583 - 1612 ). Abstract.
  • Sabrina Saccomani, Un balletto “esotico” alla corte dei Savoia: I sette re della Cina ( 1612 ). Abstract.
  • Armando Fabio Ivaldi, Meccanismi di gestione teatrale nel Settecento genovese. Abstract.

Venerdì 27 ottobre. Sala B (ore 17.30), Rapporti fra testo e musica, presiede Claudio Gallico

  • Maria Sofia Lannutti, L'edizione critica della lirica romanza medievale: il caso di una canzone francese di crociata. Abstract.
  • Maria Rita Borgia, La Passione liturgica di scuola napoletana nel secondo Settecento. Primo approccio alla problematica. Abstract.
  • Marina Mayrhofer, Dal recitativo al Melodram. Un percorso ideologico nel Fidelio di Beethoven. Abstract.

 

Sabato 28 ottobre. Sala A (ore 9.30), Il Cinquecento, presiede Warren Kirkendale

  • Alexandra Amati-Camperi, Una stanza ariostesca nella tradizione madrigalistica del Cinquecento. Abstract.
  • Marco della Sciucca, Mutamenti estetici nei trattati di Andrea Matteo III d'Acquaviva e Luigi Dentice. Abstract.
  • Stefano Patuzzi, Possibili fonti letterarie del Ballo delle ingrate rinucciniano. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala A (ore 11.30), La Messa polifonica, presiede Claudio Annibaldi

  • Wolfgang Witzenmann, Le due Messe lateranensi: opere di Paolo Agostini?. Abstract.
  • Licia Mari, Stefano Nascimbeni: un esempio di tradizione e rinnovamento tra Cinque e Seicento. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala A (ore 15.30), Cappelle musicali, presiede Mariangela Donà

  • Domenico Morgante, La prassi musicale nel Coro della Cattedrale di Brindisi in età controriformista. Abstract.
  • Stefano Barandoni, La cappella musicale della Chiesa conventuale dei Cavalieri di Santo Stefano di Pisa. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala A (ore 17.30), Iconografia, presiede Elena Ferrari Barassi

  • Cristina Santarelli, Iconografia musicale dell'Incoronazione della Vergine nella pittura piemontese del Quattrocento. Abstract.
  • Barbara Marignetti, Gli intermedi de La Pellegrina: repertori emblematici e iconologici. Abstract.
  • Silvia Casolari, Figure allegoriche varianti nel Prologo de Il ritorno di Ulisse in patria. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala B (ore 9.30), Filosofia, scienza, musica, presiede Enrico Fubini

  • Luca Marconi, La scienza musicale tra dogmatismo e scetticismo: il caso Mersenne. Abstract.
  • Amalia Collisani, «Le vrai savane ne chanta jamais»: il mito dell'origine e della musica nel Dictionnaire di Roussau. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala B (ore 11.30), L'oratorio nel Seicento, presiede Carolyn Gianturco

  • Arnaldo Morelli, La circolazione dell'oratorio italiano nel Seicento. Abstract.
  • Maria Chiara Mazzi, Per una lettura di due oratori modenesi: il Giona di G.B. Vitali e G.B. Bassani. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala B (ore 15.30), Prassi strumentale nel Settecento, presiede Piero Gargiulo

  • Antonio Carlini, Musiche per fiati. Modelli d'uso e consumo nel Principato tridentino. Abstract.
  • Paola Pozzi, Musica strumentale italiana nella Sächsiche Landesbibliothek di Dresda (comunicazione). Abstract.
  • Maria Grazia Sità, La prassi del preludio improvvisato per tastiera tra Sette e Ottocento. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala B (ore 17.30), L'opera nel Settecento, presiede Friedrich Lippmann

  • Elena Biggi Parodi, La diffusione della musica di Salieri in Italia ai tempi di Mozart. Abstract.
  • Pierluca Lanzillotta, La "farzetta" di Giacomo Insanguine Pulcinella finto maestro di musica. Abstract.
  • Susan Parisi, Le finte pazzie di Ferdinando Rutini e l'opera comica di fine Settecento a Firenze. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala C (ore 9.30), Strumenti e orchestra nell'Ottocento, presiede Elvidio Surian

  • Alfredo Tarallo, Nuove luci sulla produzione strumentale di Mercadante. Abstract.
  • Luke Jensen, L'orchestra nelle opere verdiane degli “anni di galera”. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala C (ore 11.30), Diffusione e ricezione nell'Ottocento, presiede Luciano Alberti

  • Andrea Parisini, La “Società del Quartetto” di Bologna tra Ottocento e Novecento. Abstract.
  • Marco Capra, Il giornalismo musicale in Italia: nascita ed evoluzione. Abstract.
  • Marcello De Angelis, Il Fondo Basevi del Conservatorio “L. Cherubini” di Firenze. Problematiche storiche e di catalogazione (comunicazione). Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala C (ore 15.30), L'opera nell'Ottocento, presiede Marcello Conati

  • Giuseppina Mascari, Le arie nella produzione operistica di Pacini degli anni 1823-1828. Abstract.
  • Luca Perini, Drammaturgia dei brindisi nelle opere di Verdi (comunicazione). Abstract.
  • Alberto Magnolfi, Corrispondenze strutturali nella Bohème di Puccini. Abstract.

Sabato 28 ottobre. Sala C (ore 17.30), Il Novecento, presiede Fiamma Nicolodi

  • Maurizio Piscitelli, Debussy “martirizzato” da D'Annunzio. Il Martirio di San Sebastiano fra letteratura e musica. Abstract.
  • Sergio Ferrarese, Simbologia filosofico-religiosa in Job di Dallapiccola. Abstract.
  • Marinella Ramazzotti, Problemi di filologia in Y entoncens compendiò e Risonanze erranti di Nono (comunicazione). Abstract.

 

Domenica 29 ottobre

  • ore 9.00: Assemblea ordinaria dei soci SIdM.
  • ore 15.30: Tavola rotonda a cura di Guido Salvetti. Diversi modi di approccio e livelli di formalizzazione nell'analisi musicale. Oggetto di studio: Sonatina ( 1916 ) di Alfredo Casella.
    Interventi di: Mario Baroni, Rossana Dalmonte, Giuliano Goldwurm, Susanna Pasticci, Egidio Pozzi, Marco Renoldi, Giorgio Sanguinetti, Maria Grazia Sità, Claudio Toscani.

Abstract

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ALEXANDRA AMATI-CAMPERI

Una stanza ariostesca nella tradizione madrigalistica del Cinquecento

Il canto del madrigale a sei voci Queste non son più lagrime, probabilmente di Verdelot, ripete quasi ostinatamente una serie ridotta di frammenti melodici, a volte leggermente variati. Questa tecnica, applicata ad una ottava tratta dal lamento di Orlando nell'Orlando furioso dell'Ariosto, è probabile teste di un “modo di cantar ottave” usato da cantastorie ed improvvisatori, altrimenti perso. Einstein, Hersh e Haar avevano notato e discusso, in maniera più o meno completa, la declamazione iniziale. Einstein la aveva legata ad un tema popolare e ad “un tipo di recitazione che si avvicina alla salmodia”. Hersh ne aveva anche discusso il ritorno ai versi 5 e 6. Stranamente, però, nessuno di loro aveva notato il ripetersi di un altro frammento melodico molto semplice e di carattere popolare. La semplicità di questo frammento è nello stile delle arie popolari usate dagli improvvisatori erranti per cantare serie di stanze da poemi epici. Non sembra imparentato con nessuna delle famose arie di questo repertorio pervenuteci (come ad esempio la famosa aria di Ruggero).
Della declamazione quasi “salmodica” iniziale si nota qui la similarità con il famoso “miserere” di Josquin. Se fosse una citazione sarebbe certamente appropriata al contesto del lamento di Orlando. La recitazione iniziale potrebbe esser servita ad introdurre il “cambio di scena” e la disperazione del protagonista durante una rappresentazione o una lettura dell'Orlando furioso in teatro, in piazza o nella corte. Per concludere, questo madrigale a sei voci conserva quello che probabilmente fu un tema popolare per cantare ottave rime che non abbiamo altro modo di recuperare, in una veste ovviamente molto più complessa dell'originale canto improvvisato (quasi sicuramente a voce sola con liuto). A questo proposito è rilevante che tutti i frammenti melodici discussi si trovino nella parte del canto, ed alcuni solo lì.


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STEFANO BARANDONI

La cappella musicale della Chiesa Conventuale dei Cavalieri di Santo Stefano di Pisa

Istituito nel 1561 da Cosimo I de' Medici, l'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano documenta sin dal 1569 l'esistenza di un gruppo di cantori attivi nella chiesa conventuale: erano alcuni sacerdoti cappellani, guidati da Francesco Linguani. Ma già nel 1571, quando fu completato l'organo di Onofrio Zeffirini da Cortona, la cappella musicale prese forma organica: fu dotata di un maestro nella persona di Antonio del Pace, dell'organista Giulio Gigli e di quattro cantori.
Progressivamente la cappella aumentò il proprio organico fino a comprendere, oltre ai cantori (generalmente in numero di nove), anche vari strumenti (principalmente ad arco) per diventare nel Settecento il centro della vita musicale pisana, insieme alla cappella del Duomo. I principali maestri che si susseguirono alla guida della cappella furono Antonio Brunelli (dal 1613 al 1630), Giovanni Lorenzo Cattani (dal 1670 al 1713), Filippo Maria Gherardeschi (dal 1785 al 1808).
Presso la Conventuale è conservato un prezioso archivio musicale, comprendente oltre 600 opere manoscritte, per lo più autografe e composte dai maestri della cappella. L'analisi di questo patrimonio musicale ha consentito di ricostruire con esattezza come nelle varie epoche la musica venisse impiegata nella liturgia. La cappella venne chiusa nel 1859, anno in cui il Regio Governo Provvisorio di Toscana soppresse l'Ordine di Santo Stefano.


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MARIA GRAZIA BARONI

Le Fantasie a 4 del ms. Vaticano Chigiano Q.VIII.206 attribuite a Luzzaschi

Rivale di Claudio Merulo e maestro di Frescobaldi, Luzzasco Luzzaschi è organista fra i più rinomati del suo tempo. Eppure oggi poche sono le composizioni, edite o manoscritte, che testimoniano direttamente della sua ampia attività strumentale: una toccata e due ricercari nel Transilvano di Diruta; una canzone a quattro voci nell'antologia edita da Raverij (Venezia 1608) e, conservati manoscritti: il secondo libro di Ricercari a quattro voci, due fantasie a quattro voci su tema dato, La Bertazina (breve danza incompleta).
Questa ricerca propone l'edizione moderna delle fantasie a quattro, conservate nel Cod. Chigi Q.VIII. 206 della Biblioteca Apostolica Vaticana attribuite a Lucciasco [Luzzaschi?]; lo studio di queste fantasie con riferimento ai ricercari a quattro voci di Luzzaschi; il confronto con fantasie che utilizzano gli stessi temi (La Spagna e Ave Maris Stella) di autori coevi attivi tra Ferrara e Napoli alla fine del Cinquecento e ai primi del Seicento.


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ELENA BIGGI PARODI

La diffusione della musica di Salieri in Italia ai tempi di Mozart

La fama di Salieri come compositore sembra oggi intimamente legata alla leggenda che è sorta intorno al suo nome come antagonista e addirittura responsabile della morte di Mozart. Una volta sfatata l'infamante supposizione rimane da stabilire quale fu realmente l'importanza della sua figura artistica nel mondo musicale dell'epoca nel periodo in cui ricopriva gli importanti incarichi di direttore dell'opera italiana a Vienna, di Kapellmeister della corte imperiale e successivamente quando, come e perché si esaurì la sua fortuna.
Indagando in Italia, la patria del melodramma, e particolarmente nel regno Iombardo-veneto, legato politicamente e culturalmente all'Austria, si vede come, negli ultimi decenni del secolo, durante la vita di Mozart, le sue opere siano di gran lunga più presenti nei cartelloni teatrali di quelle del salisburghese ma repentinamente escono di scena con la fine del Settecento.
L'indagine che è oggetto del presente articolo è partita dalla visione delle cronologie teatrali dell'epoca, dagli articoli comparsi sui giornali del tempo, dall'esame della consistenza bibliografica dei fondi conservati in Italia, dall'osservazione delle pubblicazioni della musica di Salieri comparse in quegli anni e da altre testimonianze fornite dai suoi contemporanei.
In questo modo è stato possibile riunire in quattro grafici e in vari elenchi un primo quadro generale sulla diffusione della musica di Salieri in Italia, i tempi e i luoghi della sua fortuna, la predilezione del pubblico per questa o quella opera.


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MARIA RITA BORGIA

La Passione liturgica di scuola napoletana nel secondo Settecento. Primo approccio alla problematica

L'indagine ha segnato l'entrata in un mondo fortemente contraddittorio quale è appunto quello della musica liturgica napoletana, che vede la coesistenza dei rigidi dettami della Chiesa accanto alla realtà dei Maestri di Cappella/compositori di melodrammi da un lato ed alla produzione oratoriale sempre più fiorente dall'altro. In concreto il lavoro condotto all'interno dell'ambiente napoletano settecentesco, fino ad ora praticamente inesplorato rispetto a questa forma liturgica e musicale – sono solo due gli scritti di un certo rilievo sull'argomento (Karl Nef [1935] e Kurt von Fischer [1954]) – si è rivelato tanto più interessante in quanto è servito a portare alla luce la funzione di raccordo che il Passio costituisce tra la produzione canonica di Messe, Salmi, Responsori, etc., e quella oratorio-teatrale per quanto attiene alla caratterizzazione dei personaggi.
Al termine di questa prima fase di ricerca compare la prospettiva di approfondire ulteriormente l'indagine esaminando magari le Passioni composte per le cappelle di altre chiese d'Italia, al fine di identificare una tipologia più vasta e completa e, perché no, di aggiungere un altro piccolo tassello per la ricostruzione di quel complesso mosaico costituito dal mondo musicale napoletano dei Sei e Settecento.


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MARCO CAPRA

Il giornalismo musicale in Italia: nascita ed evoluzione

Dai fogli settecenteschi di annunci teatrali ai periodici miscellanei dei primi decenni dell'800, dai primi periodici musicali ai quotidiani politici e alle riviste musicologiche di fine secolo, il giornalismo musicale italiano si evolve nel corso dell'800 da un modello di impresa ancora “settecentesca” (di stampo accademico; animata da un'insigne figura di intellettuale e spesso incentrata su di lui anche imprenditorialmente; di argomento strettamente letterario o più sovente miscellaneo) a una struttura operativamente più agile e redditizia (di ispirazione borghese; con una netta distinzione dei ruoli di redattore e proprietario; non più indissolubilmente legata alla figura dell'estensore ma più spesso all'editore; non più miscellanea ma specializzata).
I due modelli convivono negli anni '40 e '50 dando vita a giornali musicali di grande interesse non solo dal punto di vista della critica ma anche della riflessione storica e teorica: “Rivista Musicale di Firenze”, “Gazzetta Musicale di Milano”, “L'Italia Musicale”, “Gazzetta Musicale di Firenze”, “L'Armonia”, “Il Mondo Artistico”, ecc.).
Lo scenario muta bruscamente negli anni '60, sotto la spinta del modello informativo rappresentato dai quotidiani politici e dalle riviste “popolari”. Forzatamente muta la funzione dei giornali musicali: se si eccettuano casi come “Boccherini” e “Il Teatro illustrato”, animati da studiosi di rilievo come Abramo Basevi e Amintore Galli, si assiste infatti alla progressiva migrazione delle personalità più accreditate dai periodici specializzati ai quotidiani politici. In questo modo, la critica votata alla considerazione di eventi contingenti si separa dalla riflessione teorica e dalla trattazione storica che troveranno un loro spazio specialistico nelle prime riviste musicologiche di fine secolo.


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ANTONIO CARLINI

Musiche per fiati. Modelli d'uso e consumo nel Principato tridentino

Lo sviluppo della musica per strumenti a fiato nel Trentino del XVIII secolo fino ai primissimi decenni dell'Ottocento, è parte integrante dei profondi cambiamenti verificabili in tutta la società trentina del periodo, indirizzati ad una sostanziale modernizzazione della cultura. Temi sociali portanti quali l'organizzazione del consenso, la diffusione delle conoscenze, l'allargamento della partecipazione, l'affinamento della sensibilità, la crescita del senso d'appartenenza a sistemi sociali più ampi (regionali e statuali) ecc., s'intrecciano esplicitamente con soluzioni tecnico costruttive, modalità espressive, consuetudini esecutive e di consumo in progressivo incremento lungo il secolo. Un processo lento che si esplicita in comportamenti e circostanze prima sconosciute, sulla scia di pratiche ed offerte di consumo sempre più pubbliche. In questo contesto gli strumenti a fiato – grazie alle loro potenzialità comunicative – trovano un autorevole riscatto, gareggiando (alla fine) pariteticamente con i ben più considerati cugini ad arco nelle orchestre e radunandosi in autonomi complessi espressivamente completi, antecedenti diretti delle bande ottocentesche. La storia dei Wind Ensemble viene così ad essere espressione di un ben più ampio processo formativo della società esistente, raccogliendo una lunga serie di significati – elementi indispensabili all'accresciuta ritualità sacra (sulle cantorie come nelle processioni) e profana (anniversari di vittorie, visite di governanti, ecc.), suscitatrici di entusiasmi “nazionalistici”, fonti di divertimento, strumenti di decoro e di celebrazione del potere centrale – che rimanda, appunto, al progressivo formarsi della civiltà di un popolo. La relazione in oggetto – attraverso un'estesa indagine archivistica .e un'analisi delle partiture superstiti – intende esporre l'insieme dei fatti, delle richieste rituali e delle risposte private o istituzionali con le quali si costruisce nel Principato tridentino una tradizione di musiche per fiati, sottolineando differenze e condivisioni con le culture maturate contemporaneamente nei territori immediatamente limitrofi.


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SILVIA CASOLARI

Figure allegoriche varianti nel Prologo de Il ritorno di Ulisse in patria

Molteplici differenze risultano dalla comparazione delle copie manoscritte del libretto di Giacomo Badoaro, conservate nella Biblioteca Marciana di Venezia, con l'esemplare che si trova nella Biblioteca Nazionale di Vienna.
Il prologo, preso in esame specificatamente, ne costituisce un esempio eloquente. I personaggi allegorici risultanti dalla fonte viennese sono: l'Humana fragilità, il Tempo, la Fortuna e l'Amore; quelli invece riportati nei manoscritti marciani sono: il Fato, la Prudenza e la Fortezza. Si tratta dunque di figure differenti, non complementari (ad eccezione, con alcune riserve, di Fato-Fortuna), ricche di una precisa simbologia, che investe i due prologhi a confronto di un chiaro significato: certamente più pessimistico appare il prologo viennese, i cui interlocutori sono intrisi di caratteri fortemente negativi. L'indagine qui proposta sottopone ad analisi iconografica suddetti protagonisti. Intervenendo, essi si qualificano; precisano le proprie particolarità e caratteristiche, che trovano nella tradizione iconografica un immediato riscontro. (La tradizione iconografica a cui mi riallaccio è limitata, per ora, a repertori fondamentali di personificazioni e allegorie, a emblemi e a incisioni dell'epoca: fonti basate su un supporto letterario specifico). Il fine è il tentativo di mirare dapprima alla ricostruzione dell'aspetto visivo, ipotizzando, attraverso lo studio iconografico e iconologico, l'abbigliamento e gli attributi che avrebbero reso riconoscibili i suddetti personaggi allegorici; successivamente, dopo aver evidenziato le reali divergenze esistenti nella portata simbolica delle due differenti versioni musicali del prologo, porle a confronto con il testo musicale.


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AMALIA COLLISANI

“Le vrai sauvage ne chanta jamais”: il mito dell'origine e della musica nel Dictionnaire di Rousseau

Jean-Jacques Rousseau scrisse le voci musicali per l'Encyclopédie nel 1749 e poi le corresse, le rielaborò, ne aggiunse di nuove nel corso di quasi venti anni per pubblicarle, come Dictionnaire de musique, nel 1768.
Le due serie di articoli hanno molti aspetti simili, tanto nei presupposti che negli obiettivi, anche se non mancano differenze di un certo peso; si collocano negli anni fondamentali dell'elaborazione del pensiero filosofico, sociale, estetico ed anche musicale di Rousseau: il confronto tra di esse che ho portato avanti, voce per voce, si è appunto rivelato, per molti diversi aspetti, proficuo. Nella relazione che propongo vorrei illustrare la differenza terminologica e concettuale che ritengo più interessante e che più indubitabilmente emerge dal confronto; differenza che rivela un'evoluzione del pensiero estetico, specialmente musicale, di Rousseau, fortemente motivata dal parallelo maturare dell'elaborazione filosofica e sociale dei concetti di “natura”, di “origine” e di “cultura”: soltanto nelle voci scritte ex-novo per il Dictionnaire, oppure in alcune delle numerose aggiunte e correzioni, troviamo la distinzione tra “musica naturale”- e “musica imitativa” come concetti fondanti il bello musicale, e in modo diverso da quello che ci si potrebbe aspettare in base alla conoscenza divulgata di Rousseau; “musica naturale” infatti è termine esteticamente negativo; “imitativa” ha significato diverso da quello con cui era usato all'epoca tanto in Francia che in Italia almeno fino a Rossini. L'esame dei due termini e dei due concetti scava - a mio parere - in alcune pieghe del pensiero di Rousseau e getta luce su alcune delle sue apparenti contraddizioni.


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MARTA COLUMBRO

Didattica e pratica musicale nelle "pie congregazioni" napoletane

L'indagine, tuttora in corso, sulle istituzioni musicali vuol mettere in luce degli aspetti ancora sconosciuti del ricco panorama artistico partenopeo. In particolare si pone in rilievo la presenza fattiva di organismi operativi a livello didattico, la cui attività si affiancò, sia pure per brevi periodi e con alterne vicende, a quella svolta dai quattro Conservatori cittadini, storicamente più noti e accreditati.
Il caritatevole compito di instradare i fanciulli bisognosi alla pratica musicale, venne difatti accolto da diverse altre pie congregazioni quali: l'Ospizio della SS. Casa dell' Annunziata, il Real Albergo dei Poveri, e l'Ospizio dei Poveri di San Gennaro; quest' ultimo fondato nel 1667 come ringraziamento della cessata pestilenza, e già nel 1670, con un inquadramento voluto da tale Giuseppe Pandolfi, aperto ad istruire i fanciulli nelle Lettere e nella Musica.
Tale argomento risulta ancora oggi scarsamente indagato e si lamenta spesso la mancanza di dati certi in proposito che sostituiscano le spesso fugaci ed illusorie citazioni e i lacunosi accenni che alludono senza mai rivelare.
Scopo di questa ricerca, condotta attraverso la consul tazione di fonti inedite d'archivio, pubbliche e private, sarà appunto quello di ricostruire la vicenda musicale di questi altri Istituti ricomponendone l'assetto e la funzione, osservandone per aItro l'eventuale loro incidenza sul circuito spettacolare cittadino.
Altri tasselli si possono dunque aggiungere al vivace mosaico della civiltà musicale napoletana, contribuendo forse a dettagliarne meglio l'immagine e magari ad inserire nuove prospettive.


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MARCELLO DE ANGELIS

Il fondo Basevi del Conservatorio "L.Cherubini" di Firenze. Problematiche storiche e di catalogazione

La Regione Toscana promuove tramite il dipartimento Beni Librari la catalogazione informatica del patrimonio librario e di testi e scritture presente in Toscana. L'associazione Pro.Ba.T (Progetto Basevi Toscana), in armonia con le cattedre di Storia della Musica e Drammaturgia Musicale del Dipartimento di Arti e Spettacolo dell'Università di Firenze, si sta dedicando alla catalogazione informatica del fondo Basevi del Conservatorio "Cherubini". Per la catalogazione del materiale a stampa a carattere bibliografico, ci si è serviti delle schede nate dall'applicazione di ISIS al materiale bibliografico moderno e antico (schede Teca e Edan). È in corso la catalogazione informatica del materiale musicale a stampa e manoscritto, con i programmi Music e Incipit elaborati per conto di Beni Librari da Luciano Vannucci.
Stiamo lavorando al corpus delle cosiddette "miscellanee vocali", ossia stralci, arie, scene, concertati, che presenta una concentrazione particolarmente significativa sul repertorio operistico italiano di fine '700 e primo '800 (Cimarosa, Fioravanti, Generali, Guglielmi, Mayr, Nicolini, Paer, Paisiello, Traetta, Zingarelli) proveniente dagli archivi dei teatri romani e napoletani. Il materiale può rivelarsi utile alla ricostruzione di modi, tendenze, vicende e cronologie operistiche italiane di quel periodo, anche per le prassi esecutive rilevabili dalle modalità di fissazione del documento (organici e tagli strumentali, ruoli vocali e così via). Ad ogni scheda è connesso l'incipit o gli incipit musicali. Si sta procedendo anche all'immissione della musica strumentale a stampa, lavorando in questa fase soprattutto sull'editoria francese e austro-tedesca di fine '700 e primo '800.


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MARCO DELLA SCIUCCA

Mutamenti estetici nei trattati di Andrea Matteo III Acquaviva e Luigi Dentice

Il trattato filosofico-morale basato sul De virtute morali di Plutarco che Andrea Matteo III Acquaviva, duca d'Atri, diede alle stampe nel 1526, contiene al suo interno un ampio trattato musicale in latino di oltre settanta pagine. È largamente basato sulle classiche tesi pitagorico-aristoteliche mediate da Boezio, ma vi si riscontrano pure, qua e là, vari prestiti dal Theoricum opus e dal Theorica musicae del Gaffurio, che sicuramente conobbe l'Acquaviva negli anni del suo soggiorno a Napoli dal 1478 al 1480.
L'opera dell'Acquaviva, dunque, non si caratterizza tanto per l'originalità dei contenuti, quanto per l'impostazione metodologica che riesce a conferire al trattato musicale, non inteso semplicemente come discussione autonoma sulla musica e su quanto questa interpreti la cosmologia, ma come uno dei momenti costitutivi di una trattazione più ampia, quella filosofico-morale, e come mezzo esemplificativo delle tesi sviluppate (“musica quae animum demolcet”).
I più noti Duo dialoghi della musica pubblicati da Luigi Dentice, barone di Viggiano, nel 1553, rnostrano uno stretto legame con lo scritto acquaviviano; si può anzi affermare che ben spesso ne sono una mera traduzione italiana (per quanto la fonte sia a malapena citata sul finire del libro). Purtuttavia si fanno testimoni di un autentico mutamento estetico nel modo di concepire il trattato, in cui è la stessa forma del dialogo che si rende confacente alle esigenze del rinnovato pensiero epidittico. Il dialogo è inteso anche come veicolo di letterarietà diffusa e come efficace strumento pedagogico capace di ricreare il rapporto docente-discente, specialmente nelle sue valenze dialettiche.
Si tratta di passaggi estetici fondamentali che i due trattati, così strettamente imparentati tra loro nei contenuti, riescono a testimoniare con evidenza proprio nelle loro differenze formali; mutamenti estetici che inevitabilmente finiranno per condurre alle forme letterario-trattatistiche tardocinquecentesche, zarliniane si direbbe, intese come il contributo reso dalla musica alla cultura universale.


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SERGIO FERRARESE

Simbologia filosofico-religiosa in Job di Dallapiccola

Se nelle accidentate e procellose vie che portarono alla definizione cristallina dell'espressività di Dallapiccola incontriamo anche Job non è un evento del tutto casuale giacché l'intenzione di dare corpo a una metafora musicale che riflettesse la tematica bipolare del bene e del male, di coloro che sono sconfitti e dei vincitori trovò la sua realizzazione in questo oratorio che il compositore scrisse di getto nell'estate del 1950. È nota la riflessione dallapiccoliana sulla causa del male, in seguito alla guerra, dopo I'esperienza vissuta in prima persona e in misura tanto grande del dolore umano che provoca una meditazione teorica profonda, qui in modo ancor più presente che nel Prigioniero. Anche la scelta del libro sapienziale di Giobbe è un ripensamento della presenza costante della sofferenza e dell'insolubilità del male radicale nel mondo e del suo rapporto con Dio: è dalla parabola di Giobbe che nasce il libretto - con parole spesso testuali ma anche con qualche modifica, ad esempio non c'è traccia, nell'opera di Dallapiccola, dell'intercessione di Job per i suoi amici - e anche I'orchestrazione è più scaltrita. Siamo di fronte a un oratorio concepito musicalmente, in grandi dimensioni, sul modello del Moses und Aron di Schoenberg. Ed infatti, in Job, il riferimento al maestro viennese ha un significato particolare, anche perché in questa Sacra rappresentazione studiata da Dallapiccola la relazione tra uomo e Dio è presentata dal punto di vista della narrazione veterotestamentaria, come nel grande oratorio incompiuto del padre della dodecafonia. Job è il primo lavoro dallapiccoliano di una certa ampiezza, che al pari del Moses und Aron si basa su un'unica serie e che realizza in tal modo la perfetta unità dodecafonica. AlIa base di questa nuova acquisizione sta certamente Schoenberg ma Dallapiccola stesso indica come fonte ispiratrice di questo particolare e importante risultato la Lulu di Berg. Anche in Job, come nell'opera berghiana, il dominio magistrale del contrappunto dodecafonico si esprime in una serie di episodi canonici rigorosi. Ed è dalla struttura canonica che si evince un fitta rete di simboli e l'interrogativo di fondo sulla causa prima del male che avrà qui la stessa risposta della Bibbia; tuttavia, sarà la musica a rivelare la chiave ermenutica delle parole e delle allegorie che da sole non potrebbero darci un'idea univoca sul senso dell'opera.


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JEAN GRUNDY FANELLI

La musica patrocinata dai Rospigliosi: il Casino dei nobili di Pistoia

II collegio gesuita di Pistoia, fondato nel 1635, accoglieva non solo i figli dei nobili pistoiesi, ma altresì dei lucchesi e dei fiorentini. La locale famiglia patrizia di Casa Rospigliosi fu responsabile di gran parte dei finanziamenti destinati sia alla istituzione del collegio che alla sua successiva attività. Naturalmente Giulio Rospigliosi, librettista di fama, successivamente divenuto Papa Clemente IX (1667-69), trasmetteva notizie aggiornate sui principali eventi musicali romani negli anni del suo cardinalato, ispirando così il dramma musicale nel collegio pistoiese diretto da suo fratello, il Balì Camillo.
I più grandiosi spettacoli pistoiesi di musica drammatica furono dati in onore suo o di un membro della sua famiglia. Tuttavia il collegio offriva anche musica strumentale, liturgica, ed oratori. I suoi studenti partecipavano alle festività annuali più importanti della città, incluse le processioni e la devozione dei morti, coinvolgendo compositori della fama di Jacopo e Bartolomeo Melani, Lodovico Giustini e Francesco Manfredini.
Questo primo studio dimostra, inoltre, quale parte la musica giocasse nell'educazione di un giovane patrizio toscano nell'epoca barocca, nonché quanta importanza avesse per la vita del collegio. Il Casino dei nobili rimase a testimonianza di un costume che durò sino al 1773, data della sua soppressione.


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ARMANDO FABIO IVALDI

Meccanismi di gestione teatrale nel Settecento genovese

Nonostante recenti monografie dedicate in prevalenza ad alcuni grandi impresari del primo Ottocento, nulla in realtà sappiamo ancora di preciso su come era organizzato il sistema e la gestione dei teatri a pagamento nei secoli XVII e XVIII. I contratti di affitto delle sale ad uso di pubblico spettacolo e le loro clausole, per esempio, così come i dettagliati regolamenti in materia emanati dai vari governi, oltre ad un insieme particolare e significativo di norme e di divieti, erano l' ulteriore espressione di una cultura giuridico-economica prima ancora, forse, che etico-estetica e di regola celebrativa di un potere centrale o di ristrette élites sociali. Un'analisi approfondita e sistematica delle "carte" di un impresario e dei registri contabili delle varie imprese di fine Settecento rende così possibile chiarire, con maggiori dettagli, sia certi rapporti preferenziali con compositori e cantanti e talvolta anche con costumisti e scenografi sia, in part.icolare, interessanti dipendenze o interdipendenze tra 'piazze' teatrali, attraverso la creazione di circuiti paralleli primari e secondari, diversificati anche per aree geografiche, nella produzione e nella successiva distribuzione degli allestimenti operistici e nel reclutamento stesso del cast. Anni di pazienti ed accurate ricerche hanno alla fine consentito di poter raccogliere, fra collezioni pubbliche e private, una cospicua ed eterogenea documentazione archivistica inedita che permette di ricostruire, con ricchezza di particolari, i criteri speculativi ed artistici attuati a Genova nel corso del Settecento (ma validi anche come esempio più generala) da alcune importanti famiglie aristocratiche, nella costruzione nella gestione di teatri pubblici a pagamento, prima in maniera abbastanza originale, e poi orientandosi verso il coevo modello francese.


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LUKE JENSEN

L'orchestra nelle opere verdiane degli “anni di galera”

Quintino Sella, un collega parlamentare di Verdi, citò il compositore quando parlava della propria maniera di comporre.
Il pensiero mi si affaccia completo e soprattutto sento se la nota di cui voi parlate deve essere di flauto o di violino. La difficoltà sta tutto nello scrivere abbastanza presto, da potere esprimere il pensiero musicale nella integrità con cui è venuto alla mente (Copialettere, p. 599).
Monaldi, uno dei primi biografi di Verdi, citò il compositore sull'importanza della strumentazione dicendo che è buona quando significa qualcosa (Monaldi, Verdi, 1839-1898, edizione seconda, p. 198). In queste righe, il compositore rivela l'importanza dell'accompagnamento dell'orchestra nel comporre un'opera e nel suo proposito drammatico.
Per le opere dall'Oberto alla Traviata, documentazione contemporanea dimostra che per sei, I due Foscari, Macbeth, Il corsaro, La battaglia di Legnano, Stiffelio, e Il trovatore, Verdi concludeva almeno una parte prima di partire per la città della prima rappresentazione, cioè, lontano dalle esigenze della prima rappresentazione. Con queste sei opere, si può cominciare lo studio dell'orchestrazione verdiana e quindi cominciare a capire ciò che significa l'orchestrazione nella musica di Verdi.


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MARIA SOFIA LANNUTTI

L'edizione critica della lirica romanza medievale: il caso di una canzone francese di crociata

La lirica romanza delle origini, al di là della maggiore o minore frequenza del testo musicale nella relativa tradizione manoscritta, è poesia concepita per essere cantata. Lo ribadisce Dante nei capitoli dei De vulgari eloquentia dedicati alla descrizione dell'ars cantionis, dove viene fornito un modello di analisi della strofe musicale di cui si è finora sottovalutata l'effettiva funzionalità ed efficacia e dove viene data la precedenza alla descrizione della struttura dei cantus rispetto a quella dell'habitudo partium e del numerus sillabarum. In altri termini, per Dante è proprio il cantus che determina l'organizzazione della strofe verbale. Si comprende quindi come per la produzione lirica del Medioevo l'edizione del testo musicale, laddove sia possibile, non abbia un puro e semplice valore documentario, ma diventi necessaria per l'analisi e l'interpretazione dello stesso testo verbale.
Da un punto di vista metodologico è indispensabile chiarire in primo luogo la natura dei due tipi di tradizione, verbale e musicale (in quale misura sono influenzate dai processi di trasmissione orale?), e i rapporti tra loro intercorrenti (si tratta di tradizioni distinte o interattive?); in secondo luogo quali siano i criteri di edizione utilizzabili (è possibile ricorrere per ambedue le tradizioni ai criteri della stemmatica?). I risultati di un procedimento editoriale che riteniamo innovativo verranno esposti mediante l'analisi di una nuova edizione della celebre canzone di crociata Chanterai por mon corage (n. 21 del repertorio Raynaud-Spanke), dove testo verbale e testo musicale, posti sullo stesso piano sia nella fase ecdotica sia nella fase interpretativa, si illuminano a vicenda, permettendoci di collocare il componimento nel settore della produzione lirica francese dove più evidente è il recupero programmatico di tratti parafolclorici e arcaizzanti.


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PIERLUCA LANZILOTTA

La "farzetta" di Giacomo Insanguine Pulcinella finto maestro di musica

Il genere operistico della farsa o 'farsetta' nacque nella seconda metà del Settecento a Napoli come appendice in un atto di una commedia per musica. Nel panorama già molto scarso di manoscritti di opere buffe di quegli anni giunti fino a noi, le farse pervenuteci sono una vera rarità: la seconda in assoluto, da un punto di vista cronologico, di cui si sia conservata la partitura manoscritta, dopo La Claudia vendicata di Paisiello (Napoli 1769), è Pulcinella finto maestro di musica di Giacomo Insanguine detto Monopoli (1728-1795), acclusa alla propria commedia per musica in 3 atti Le Astuzie per amore e rappresentata nel Teatro dei Fiorentini nel carnevale 1777.
Il presente intervento intende proporre una sintetica esposizione di questa farsa, oggetto nell'estate 1995 di una ripresa scenica (la prima in tempi moderni). Oltre all'importanza storica di cui s'è detto, essa presenta molti motivi di interesse, a cominciare dalla presenza di un pastiche linguistico che potremmo qualificare come 'franco-napoletano': per conquistare la sua bella, Pulcinella si introduce nella casa di lei travestito da maestro di cappella francese, con risultati esilaranti. Un'aria di bravura eseguita dal vecchio padre di lei viene interrotta più volte da Pulcinella con passi di agilità virtuosistica, e quasi tutte le altre arie hanno una valenza metateatrale o comunque una stratificazione di significati: fra di esse spiccano la cavatina di Pulcinella, seguita dal primo duetto con l'amata e piena di doppi sensi allusivi e maliziosi, e l'aria di Alfonsina che diventa anch'essa un duetto con Pulcinella, al quale sono dirette le dichiarazioni amorose contenute nel testo.
L'operina offre dunque testimonianze preziose sulla genesi di un genere teatrale che di lì a poco Rossini avrebbe portato ad altezze non più superabili.


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ALBERTO MAGNOLFI

Corripondenze strutturali nella Bohème di Puccini

La critica sulla Bohème pucciniana concorda in generale nel ritenere l'opera rappresentativa di una giovanile maturità dell'autore. Essa tuttavia si è finora rivolta ad indagare l'esteriorità del dramma, le caratterizzazioni degli ambienti e dei personaggi, i problemi connessi al libretto e alla drammaturgia, affrontando solo in parte lo studio vero e proprio della partitura. Questa è stata semmai oggetto d'attenzione per riscontri dimostrativi legati ad aspetti particolari, con qualche accenno analitico-formale, trascurando comunque di considerare in maniera complessiva il decorso musicale e di indagarne l'organizzazione. Ciò che mi propongo di sviluppare è un discorso che, partendo dalla realtà della pagina scritta, porti a identificare la ricorrenza di specifici elementi musicali, non solo di tipo melodico (Leit-motive), ma anche armonico e ritmico, valutandone la distribuzione nell'economia dell'intera opera. Le progressive modificazioni del tessuto sonoro appaiono infatti il prodotto dell'elaborazione di alcuni gruppi tematici che determinano una fitta rete di corrispondenze o richiami. La mia lettura intende quindi servirsi del dato analitico quale mezzo d'indagine per una comprensione meno approssimativa del melodramma.


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LUCA MARCONI

La scienza musicale tra dogmatismo e scetticismo: il caso Mersenne

Negli studi musicologici la figura di Mersenne è stata spesso trascurata, ed anche i pochi musicologi che se ne sono occupati hanno considerato quasi unicamente l'Harmonie universelle. In questo intervento si mostrerà invece come un'accurata analisi delle trattazioni musicali di questo autore, a partire dalla sezione sulla musica delle Quaestiones celeberrimae in Genesim (del 1623) fino all'Harmonie universelle (pubblicata nel biennio 1636-1637), sia di notevole interesse musicologico, specie per capire l'incidenza sugli studi musicali dei profondi cambiamenti di impostazione della riflessione epistemologica sviluppatisi in seguito alla "Rivoluzione Scientifica del Seicento".
Per approfondire tale argomento, l'indagine sugli scritti di Mersenne risulta particolarmente indicata, giacché in essi troviamo sia l'esposizione dell'impostazione epistemologica di uno dei protagonisti della “Rivoluzione scientifica”, che i cambiamenti nell'approccio ai problemi musicali da questi operati nel tentativo di studiare la musica in modo coerente a tale impostazione e alla decisione di porre la scienza musicale come disciplina guida della propria attività scientifica. Notevoli spunti possono poi essere tratti dalla lettura della Correspondance du P. Mersenne, ed in particolare dalle lettere nelle quali Descartes espose le proprie posizioni nel dibattito sulle possibilità e sui limiti della scienza musicale; nel corso dell'intervento si mostrerà in che misura Mersenne, negli scritti successivi a tali lettere, aderì alle posizioni di Descartes e in che misura prospettò sulle stesse questioni una posizione diversa, che nei suoi intenti doveva opporsi tanto agli approcci dei "dogmatici" quanto a quelli degli "scettici".


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LICIA MARI

Stefano Nascimbeni: un esempio di tradizione e rinnovamento tra Cinque e Seicento

L'intervento vuol offrire un primo approccio con la figura di Stefano Nascimbeni (1560 ca.-1621) attraverso le sue vicende biografiche e l'analisi delle sue opere, in prevalenza sacre, con un'attenzione particolare per le Messe a otto voci con la Partitura per l'Organo (Venezia, R. Amadino, 1612).
La ricerca d'archivio ha portato nuovi e originali contributi per quanto riguarda l'attività del musicista a Concordia, Mantova, Novara. Nascimbeni, detto “Mantovano” nel frontespizio delle sue Messe, ha lavorato a Mantova proprio negli anni in cui era presente Claudio Monteverdi, occupando quel posto di maestro di cappella presso la Basilica Palatina di S. Barbara cui Monteverdi tanto aspirava, ma che mai gli venne concesso dal duca Vincenzo. Tale incarico di prestigio, segno di chiara considerazione, è uno dei primi motivi che stimolano l'interesse per il musicista, confermato poi dalla produzione musicale. Le opere a noi pervenute complete non sono in grande quantità [due madrigali nelle raccolte Novelli Ardori (Venezia, R. Amadino, 1588) e L'Amorosa Caccia (Venezia, A. Gardano, 1588); un mottetto nella raccolta di L. Calvo Symbolae diversorum musicorum (...) (Venezia, A.Vincenti, 1620); I Salmi a otto voci con il basso per l'Organo (Venezia, B.Magni, stampa del Gardano, 1616); e appunto le Messe a otto voci del 1612], ma testimoniano come fedeltà alla tradizione e fermenti innovativi si mescolino nella ricerca compositiva.
Ad esempio, nelle Messe si nota come Nascimbeni tenti di rinnovare dall'interno una tradizione contrappuntistica che non è mai dimenticata: nella prima Messa, accanto al contrappunto molto fitto, costruito “sopra soggetto”, compaiono episodi con un trattamento solistico delle voci, il basso continuo e non più seguente (caratteristica quest'ultima che emerge anche nel mottetto del 1620); nelle altre due Messe vediamo come il ritmo acquisti momenti di grande importanza, anche la “verticalità” e le dissonanze trovano il loro spazio espressivo, ma tutto all'interno di un sapiente uso dell'intreccio vocale, delle sonorità divise tra i due cori, comunque di pari importanza.
La scrittura musicale di Nascimbeni testimonia un vivo e personale rapporto tra la sua solida formazione e il variegato ambiente culturale in cui lavora - pensiamo a Monteverdi, ai Gabrieli, a Pallavicino, Viadana, Ghizzolo, Donati - collocando il musicista quale figura di passaggio tra due epoche.


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BARBARA MARIGNETTI

Gli intermedi de la Pellegrina: repertori emblematici e iconologici

La ricerca sugli Intermedi fiorentini del 1589: musica, rappresentazione e immagine (tesi di laurea) utilizza i repertori emblematici e iconografici di XVI e XVII secolo, confrontando le allegorie rappresentate nei noti intermedi con le medesime individuate nei repertori. Tale metodologia ha consentito di risalire alla fonte classica da cui deriva ciascuna allegoria, aggiungendo così informazioni a quelle fornite dalla Descrizione (...) degli intermedi di Bastiano de' Rossi, quasi esegesi del progetto di Giovanni Bardi, autore dello spettacolo. L'uso di documenti iconografici per lo studio di fenomeni musicali è proprio dell'iconografia musicale, che tuttavia non ha mai considerato l'importanza dei repertori emblematici e iconografici di XVI e XVII secolo per lo studio del coevo teatro in musica italiano. Tali repertori possono essere considerati veri e propri soggettari del linguaggio simbolico dell'epoca. Ad essi attingevano pittori, scultori, poeti e autori di “poemi drammatici”, come sottolinea il sottotitolo alla Iconologia (…) di Cesare Ripa (edizione del 1618). Il Ripa poi, alla voce Armonia, specifica “come rappresentata in Firenze dal Granduca Ferdinando”, citando l'allegoria del primo intermedio della Pellegrina. Armonia è personificazione del concetto boeziano di musica mundana, così come la Disfida tra Muse e Pieridi e Arione citaredo, soggetti del secondo e quinto intermedio, simboleggiano la musica humana. Studiando il ricorrere di tali allegorie nelle incisioni e nei repertori iconografici e emblematici cinque-secenteschi, è possibile valutarne la fortuna sia come soggetti iconografici, sia come simboli di una specifica teoria musicale.


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GIUSEPPINA MASCARI

Le arie nella produzione operistica di Pacini degli anni 1823-1828

Scarsa attenzione è stata sinora rivolta dagli studiosi ai cosiddetti compositori “minori” dell'Ottocento italiano. Della vasta produzione operistica di G. Pacini, che nel quinquennio 1825-1830 risulta il compositore più rappresentato dopo Rossini, ben poco si conosce e il numero dei contributi che presentano un qualche interesse per la conoscenza del “maestro delle cabalette” è alquanto esiguo. Oggetto del nostro studio sono le opere di Pacini degli anni 1823-1828; in questi anni, infatti, si registrano i maggiori successi di quella che Pacini stesso definì la sua prima epoca artistica. Le dodici opere composte in questo arco di tempo vennero scritte quasi esclusivamente per i due maggiori teatri italiani, il teatro alla Scala di Milano ed il San Carlo di Napoli e per i più famosi cantanti dell'epoca (Tosi, Pasta, David, Rubini, Lablache). Attraverso l'analisi delle opere di questi anni, e con particolare attenzione alle arie, si è cercato da un lato di mettere in evidenza le difficoltà che incontrò il nostro compositore, e come lui i suoi contemporanei, nel tentativo di distaccarsi o quanto meno di portare un contributo personale all'interno del modello rossiniano, dall'altro si è voluto far luce su alcune particolarìtà stilistiche della produzione paciniana, sul rapporto testo-musica, sulla ricerca di particolari soluzioni armoniche, fino alla codificazione di una grande varietà di stilemi propri delle cabalette.


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MARINA MAYRHOFER

Dal recitativo al Melodram. Un percorso ideologico nel Fidelio di Beethoven

La presenza del recitativo, tra le unità drammaturgiche del Fidelio costituisce un'anomalia a fronte delle proprietà strutturali dei due generi entro i quali, più segnatamente, si suole far rientrare l'opera: il Singspiel e l'opéra à sauvetage. La formula, utilizzata in tutte e tre le versioni, non senza esser stata sottoposta a varianti nei luoghi ove ricorre, è scelta per due numeri di rilevanza essenziale nello sviluppo e negli esiti della vicenda, la “Leonorenszene”, situata (nella versione definitiva) al centro del I Atto e la “Kerkerszene” di Florestan, ad apertura del secondo. Tenendo conto delle diverse elaborazioni apportate a questi due grandi monologhi, sulla scorta degli studi effettuati da W. Hess, E. Prieger, W. Dean e altri, si vuole mettere in luce la novità dei contenuti assegnati da Beethoven alle sezioni dei due recitativi. Inoltre, prendendo in esame un'altra formula, impiegata nella drammaturgia dell'opera, se pur in un solo caso, il Melodram, si cerca di verificarne i significati acquisiti nei generi del Singspiel e dell'opéra à sauvetage. Si prende in considerazione un esempio di Mélodrame, tratto da Les deux journées di Cherubini,opera indicata tra i modelli più significativi per Fidelio. Il ruolo ideologico, assunto dal Mélodrame nella nuova tipologia dell'opera francese di salvataggio viene assimilato da Beethoven,in modo funzionale alla prospettiva etica prescelta, in un numero del II Atto, che comprende il "Grabenduett". Le affinità stilistiche, riscontrabili nella versione definitiva dell'opera, tra i due grandi recitativi, di Leonore e Florestan, e il Melodram, sono rese più accentuate dal lungo lavoro di rielaborazione, indagato, per ciò che concerne la cronologia, nei recenti saggi di C. Brenneis, M. Schuler e T. Albrecht. Le analogie tra le due formule sono ravvisabili nei preminenti criteri della tecnica descrittiva e delle citazioni motiviche.Tanto l'uno che l'altro procedimento è applicato ai fini di una maggiore enfatizzazione dei valori ideologici dell'opera, dotandola, nei numeri citati, del taglio, affatto nuovo, della narrazione e del commento. In merito ci si è avvalsi delle osservazioni, contenute nel volume, di recente pubblicazione, L'invenzione della gioia.Musica e massoneria nell'età dei Lumi, di A. Basso.


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MARIA CHIARA MAZZI

Per una lettura di due oratori modenesi: il Giona di G.B. Vitali e G.B. Bassani

Nella vicenda storica dell'oratorio controriformistico il racconto narrato nel Libro di Giona, movimentato, affascinante, complesso ma simbolicamente chiarissimo nel contesto biblico, viene scarsamente utilizzato, forse per le possibilità molteplici di letture e di interpretazioni che, fuori dal contesto della Scrittura, esso consente. Proprio per questa ragione assume un significato particolare il fatto che esso per tre sole volte sia stato adattato a libretto per oratorio e messo in musica.
Una prima volta un libretto latino, fedele al testo del Vecchio Testamento anche se utilizzato solo parzialmente, viene preparato da un estensore anonimo e musicato da Giacomo Carissimi nel 1674. Ma gli altri due libretti, che strumentalizzano in maniera inquietante il racconto biblico, e le altre due realizzazioni musicali appartengono alla storia dell'oratorio in volgare e sono collocati nello stesso anno e nello stesso ambito culturale e sociale: il 1696 a Modena.
La mia relazione si propone comprendere il perché di questa strana coincidenza e cerca di trovare motivazioni alle trasformazioni e alle strumentalizzazioni attraverso l'incrocio e l'analisi parallela dei due libretti e della loro realizzazione musicale (cioè i dati più squisitamente musicali e artistici) con il contesto storico.
Questa nuova ottica riserva delle sorprese e riesce a dare risposte che non sono ottenibili invece attraverso una lettura che si ferma al libretto o alla partitura (così come viene fatto nell'unico saggio sui due Giona pubblicato da M. Baroni in “Quadrivium” del 1977).
L'uso 'politico e persuasivo' che del genere dell'Oratorio facevano ancora a fine secolo sia la Chiesa che lo Stato, soprattutto nella Modena di Francesco II, spiega infatti l'uso del Libro di Giona e le clamorose trasformazioni di esso nei due libretti. Questi elementi mediati nel differente approccio musicale dei due compositori diventano infatti un mezzo di persuasione sociale importante ed efficace in quel contesto storico particolarissimo.


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ARNALDO MORELLI

La circolazione dell'oratorio italiano nel Seicento

Il primo volume di The History of the Oratorio di Howard Smither, pubblicato nel 1977, costituisce la più recente monografia dedicata alla storia dell'oratorio musicale in Italia: bisogna però riconoscere che tale lavoro, benché ancor oggi resti per certi aspetti di indubbia utilità, risente di un'impostazione metodologica meno aggiornata di quanto non dica l'anno della sua apparizione. Le ricerche svolte negli anni che ci separano dalla citata monografia del musicologo statunitense, condotte da singoli studiosi o coordinate da alcune cattedre di Storia della musica di alcune università italiane, hanno infatti portato nuove conoscenze su diversi centri italiani (Venezia, Modena, Bologna, Firenze, Pistoia, Roma, Napoli) mostrando nuove prospettive di indagine su questo particolare genere musicale. Le ricerche condotte in prima persona da chi scrive nell'arco di più di un decennio, oltre ad illustrare la storia dell'oratorio in alcuni centri italiani non ancora studiati (Roma, Ferrara, Lucca e altri centri minori), hanno posto in evidenza alcuni aspetti legati alla nascita del genere e ancor più alla sua diffusione e circolazione.
Dagli ultimi sviluppi delle ricerche sono emerse le tracce di un interessante fenomeno di circolazione e disseminazione di testi e musiche per oratorio, che è stato oggetto di ulteriori approfondimenti.
Nella relazione proposta cercherò di chiarire: 1) l'entità del fenomeno di circolazione di testi e musiche oratoriali tra un centro e l'altro; 2) se Roma, alla stregua di quel che Venezia aveva rappresentato per la circolazione del repertorio operistico, potesse aver funto da centro di irraggiamento; 3) attraverso quali canali e per quali ragioni tale circolazione si rese possibile (primi indizi documentari indicano, ad esempio, congregazioni e confraternite religiose, mecenati, poeti, musicisti e erfino cantanti quali veicoli di questa disseminazione).
I risultati della presente ricerca permettono di superare una visione dell'oratorio di tipo 'localistico', ma di osservarlo come fenomeno storico-musicale su larga scala, per molti aspetti più vicino all'opera che alla musica sacra.


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DOMENICO MORGANTE

La prassi musicale nel Coro della Cattedrale di Brindisi in età controríformistica

Si tratta di uno studio interamente fondato sull'esame di un'importante documentazione manoscritta inedita (da me interamente riprodotta in microfilm), custodita nella Biblioteca Pubblica Arcivescovile "Annibale De Leo" di Brindisi.
Da un lato vi sono le minuziose Conclusioni del R[everendissi]mo Ca-/pitolo, e Clero della Metropolitana / Chiesa di Brindisi [...] - di cui ho analizzato gli anni che vanno dal 1519 al 1642 -, dall'altro gli interessantissimi Statuta Ecclesiae Brundusinae, raccolti nel 1728 sulla scorta di tutta la documentazione preesistente, che contengono, tra le altre cose, specifici capitoli dedicati all'attività Del Cantore, Del Succantore e Del Maestro di Cappella.
Da tutti questi elementi, opportunamente collegati alla costruzione (nel 1594) di un Coro monumentale tra i più ricchi e sontuosi di tutta l'area mediterranea, viene fuori un'immagine, relativamente alle attività musicali praticate nelle grandi chiese del Sud tra Cinque- e Seicento, protesa tra gli abiti magniloquenti tipici della cultura barocca e un certo, convinto, conservatorismo di elementi estetico-musicali di tradizione altomedievale. Gli stessi canoni costruttivi generali del luogo destinato all'azione musicale, dal punto di vista dello sviluppo specificamente architettonico, si rivelano mutuati dalla tradizione medievale ricodificata in età rinascimentale in seno al movimento culturale neoplatonico.
Ad essere al passo con l'estetica musicale corrente ci pensava dunque il Maestro di Cappella con i suoi musici, che comunque intervenivano soltanto nelle principali ricorrenze dell'anno liturgico, mentre di pari passo, ma con una frequenza pressoché quotidiana, la Schola (costituita dai componenti del Clero locale, specificamente formati per tale scopo) s'occupava di perpetuare la memoria storica del canto “gregoriano” nella sua essenza più autentica, introducendo tuttavia elementi prammatici - come, ad esempio, l'uso della policoralità - che ben s'innestano in quel trionfalismo a programma che è tipico della religiosità barocca.


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MAURIZIO MURA

La riduzione degli ambiti melodici nelle Mazurke di Chopin: un criterio compositivo non esplorato

Se è vero che ognuna delle 56 Mazurke di Chopin non è collegabile con le altre se non per generici aspetti strutturali o per l'uso di quegli schemi formali di ripetizione, o di quegli orientamenti melodici o passaggi a carattere cromatico che la Windakiewiczowa aveva collegato al lessico musicale popolare polacco, mi sembra importante non tanto considerare un singolo elemento ritmico o melodico che si ripresenta più o meno occasionalmente in questa o in quella Mazurka (cito ad esempio il famoso motivo chopiniano individuato dal Miketta, che si ritrova in molte Mazurke, motivo basato sui gradi V-I-II-III), quanto un rilevante criterio compositivo che ricorre in circa una ventina di questi lavori: l'inserimento di sezioni imperniate su linee melodiche di ambito scalare difettivo, cioè non basate su scale eptatoniche ma su scale pentacordali o addirittura pentatoniche (talvolta persino pentacordali). Generalmente queste sezioni si trovano nelle zone centrali delle Mazurke, come seconde idee o parti del Trio, e accentuano sempre uno stacco espressivo rispetto alla sezione iniziale, regolarmente basata su melodie eptatoniche. Chopin è l'unico autore del primo '800 ad attuare questo singolare tipo di contrasto melodico con una certa frequenza, specie nelle Mazurke fino all'op. 33 compre sa, mentre nell'op. 56 n. 3 abbiamo un virtuale disegno pentatonico nel basso, che ricalca una parte della melodia popolare 'CHMIEL' (mis. 73 e segg.). Chopin si può quindi ritenere un anticipatore di quelle tecniche di limitazione dello spazio sonoro, adottate da alcuni autori delle epoche successive.


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SUSAN PARISI

Le finte pazzie di Ferdinando Rutini e l'opera comica di fine Settecento a Firenze

During the 1790s more newly-composed dramatic works were staged in Florence than in any other ltalian city. As shown in recent research, particularly by Marcello de Angelis, Mario Fabbri, and Robert Lamar Weaver, the number of works in the genres of opera buffa, dramma giocoso, intermezzo, farce, melodrama, and pantomime ballet by both foreign and Tuscan composers premiered between 1791 (the reign of Ferdinando III, son of Emperor Leopoldo) and 1800 (the beginning of the French occupation) surpassed significantly the number performed in the preceding twenty-five years of Leopoldo's reign as grand duke. More importantly, the works of Florentine composers achieved unprecedented success in the local theatres, a situation unparalleled in Naples, Rome, Milan, or Venice in this period.
The most prolific composer of this burgeoning Tuscan school was Ferdinando Rutini (1763-1827), who in his lifetime produced some forty-four comic works. Four are extant, and the impetus for the present paper is one of these, Rutini's intermezzo Le finte pazzie, o sia La pupilla bizzarra (1794), whose unique manuscript score only recently surfaced and is now owned by the University of Louisville in the United States. While Rutini's harmonic language is conservative for the 1790s, his melodic writing is attractive. The sense of dramatic pacing and comic invention in key scenes likewise invites comparison with similar moments in works by Cimarosa and Paisiello, the pan-Italian composers most performed in Florence in the late eighteenth century. Though the primary focus of the contribution will be stylistic - a focus so far lacking in the scholarship on the Tuscan school - literary conventions in this period, particularly the theme of feigned insanity in comic opera, and aspects of performance practice with which I will deal in preparing a modern edition of Le finte Pazzie, will also be touched on.


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ANDREA PARISINI

La "Società del Quartetto" di Bologna tra Ottocento e Novecento

Propongo un argomento di ricerca che credo ricco di stimoli e di implicazioni. Si tratta della “Società del Quartetto” di Bologna e del “Quartetto Bolognese”, la cui vicenda storica è a mio avviso importante per comprendere la diffusione della musica strumentale in Italia nell'Ottocento. Se nel panorama italiano l'istituzione quartettistica bolognese non detiene un primato assoluto in ordine cronologico (il suo esordio risale al 1879), fondamentale e non ancora sufficientemente indagata risulta tuttavia la sua attività, legata alla vivace presenza di organismi locali come il Liceo Musicale e l'Accademia Filarmonica oltre che - di riflesso - all'azione svolta dal Teatro Comunale, con le prime esecuzioni wagneriane dirette da Angelo Mariani.
L'indagine a suo tempo condotta da Tito Gotti su Beethoven a Bologna nell'Ottocento non ha avuto a ben vedere una prosecuzione organica, necessaria invece - credo - per delineare con nettezza di profilo i confini di una realtà quanto mai inquieta e in profonda trasformazione, che coinvolgeva negli stessi anni anche i compositori. Mi preme a questo riguardo sottolineare il ruolo importante svolto dall'Accademia Filarmonica (membri della quale erano appunto i componenti del "Quartetto Bolognese"), certamente di orientamento conservatore ma proprio per questo disposta ad accogliere e a promuovere le ragioni di un'arte, come quella quartettistica, sorretta da aspirazioni assolute, del tutto svincolate dalle mode del presente.


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STEFANO PATUZZI

Possibili fonti letterarie del Ballo delle Ingrate rinucciniano

Se una notevole Quellenforschung è stata svolta riguardo l'Orfeo striggiano-monteverdiano, poco o nulla è stato fatto intorno al Ballo delle ingrate rinucciniano. Partendo dalla constatazione del clima controriformistico presente a Mantova a fine '500 - inizio '600 (sotto la scorta del poema eroico di Curtio Gonzaga II fido amante, a tutt'oggi inedito), ci si interroga sulla possibilità di esistenza di un'opera che di rigoristico non presenta alcun tratto (per l'appunto il Ballo delle ingrate) e si addita l'evento nuziale (nozze di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia) come elemento coonestante la significazione amoroso-erotica del lavoro del Rinuccini.
Si rileva poi l'estrema contiguità situazionale del testo del fiorentino con un passo del canto XXXIV dell'Orlando furioso, ispirato, questo, con ogni probabilità, alla novella VIII della V giornata del Decameron.
La possibilità di tale percorso derivativo (che, quantomeno, dall'Ariosto porta al Rinuccini) pare confermata dall'intensa messa in musica di ottave del poema ariostesco che si rileva fino ai primi decenni del Seicento. Constatando che il canto in questione (XXXIV), assieme al X, fornisce il maggior numero di ottave musicate, si conclude che probabilmente la conoscenza del passo, e non solo fra i musicisti, doveva essere all'epoca piuttosto diffusa, considerando anche che l'ultima delle tre edizioni “storiche” del poema (1532) era di soli sette decenni precedente alla rappresentazione del 1608. Dopo aver suggerito che i primi fruitori del Ballo con ogni probabilità collazionarono mentalmente il lavoro musicale che si stava eseguendo e lo scandagliatissimo poema ariostesco (se non addirittura il passo boccaccesco, senz'altro sempre letto) si fa notare poi che una ulteriore ricerca, a ritroso, potrebbe far approdare l'esegeta alla poesia cortese dei primi secoli del secondo millennio (poesia galego-portoghese, provenzale, francese, tedesca, siciliaria) e ad una delle probabili fonti di essa, quella araba. Si constata, in conclusione, la presenza di due diverse correnti concettuali, negli spettacoli cortigiani gonzagheschi degli anni 1607/8: controriformistica (secondo finale di Orfeo, “apollineo”) e amorosa-profana di ascendenza medievale (Ballo delle ingrate), forse utili entrambe, come sfondo, per un'eventuale interpretazione di altri eventi artistici coevi.


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LUCA PERINI

Drammaturgia del brindisi nelle opere di Verdi

Il presente studio prende in esame il topos operistico verdiano del brindisi. Ben 9 delle 26 opere di Verdi contengono una scena in cui il “Trinklied” viene ad assumere una sua collocazione ed un suo significato ben precisi. Si tratta di stabilire allora quale possa essere la sua funzionalità drammatica all'interno delle opere in esame.Da una collazione poi delle scene in particolare si evidenzia come nell'arco di cinquant'anni, dall'Ernani al Falstaff, le formule ritmiche e melodiche che interessano questa sezione musicale non siano solo ricorrenti ma rimangano immutate. Quello che il presente studio cerca di portare all'attenzione è la possibile ascendenza massonica di tali momenti drammatici evidenti nell'immagine del banchetto e del "Trinklied" appunto, si pensi a quello ben noto di Schiller per la nona sinfonia di Beethoven. Al tempo stesso la particolare cura lessicale con la quale la tazza di libagione sia più volte indicata come un amaro calice ne rende evidente il meccanismo che rende il protagonista assimilabile alla figura di Cristo nel momento in cui accettando attraverso il proprio destino la volontà dei cieli affronta ineluttabilmente la propria sorte.


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MAURIZIO PISCITELLI

Debussy 'martirizzato' da D'Annunzio. Il martirio di San Sebastiano fra letteratura e musica

Mi sono occupato di recente del Martyre de Saint-Sébastien musicato da Debussy su testo di Gabriele d'Annunzio. Deluso e amareggiato dalle esperienze italiane, il poeta va in Francia, dove si dedica alla stesura di La Pisanelle, Le Chèvrefeuille e del Martyre de Saint-Sébastien; il progetto di composizione di quest'ultimo poggia. su un accurato studio delle fonti classiche e iconografiche da cui scaturisce il personaggio di Sebastiano, splendido ed efebico arciere che affronta coraggiosamente la morte per difendere la sua fede.
Il testo è diviso in mansioni, come venivano chiamate le varie parti che componevano i drammi medievali; i riferimenti al mondo ed alla letteratura teatrale medievale sono limitati ed esteriori, perché al mistero dannunziano mancano le caratteristiche precipue della drammaturgia medievale e cioè l'intento didascalico, il linguaggio castamente chiesastico e il sentimento sincero del divino. Particolari cure sono state dedicate da d'Annunzio al linguaggio, un francese arcaico e prezioso, che presenta non pochi problemi critici ed esegetici. Ho dedicato, inoltre, attenzione ai particolarissimi meccanismi con cui il poeta volle che Debussy rivestisse di suoni le sue parole: La musica doveva seguire le sospensioni, le pause e le suggestive allusioni della parola, in un variegato impasto di colori, suoni, luci e gesti. Debussy assecondò i voleri del poeta, creando musiche di scena ben congegnate e aderenti al testo poetico, che forse non hanno ancora ricevuto né dal pubblico né dalla critica la giusta attenzione e la dovuta considerazione. Negli anni successivi alla prima rappresentazione parigina del 1911, il mistero dannunziano ha suggerito anche balletti e versioni cinematografiche: segno tangibile della grandezza di una pagina ancora da scoprire.


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PAOLA POZZI

Musica strumentale italiana nella Sächsische Landesbibliothek

Nella prima metà del secolo XVIII, Dresda visse un periodo artistico particolarmente fecondo. Per Augusto il Forte (1697-1733) e per il suo successore, Federico Augusto II (1733-1756), l'ostentazione di ricchezza culturale corrispondeva ad un'affermazione di potenza. Nel campo musicale, questa Corte poteva vantare una delle più imponenti orchestre d'Europa, famosa anche per la virtuosità dei suoi membri. Da citare immediatamente è Johann Georg Pisendel, Konzertrneister dal 1730 fino alla sua morte nel 1756.
Nel 1716/1717 Pisendel, insieme ad altri membri della Cappella, si trovava al seguito del Principe Ereditario a Venezia, qui frequentò Vivaldi (dal quale ricevette anche lezioni di violino, testimoniate da un manoscritto di un concerto di Pisendel con correzioni di Vivaldi) e Albinoni, che gli dedicò una Sonata a Violino solo. Si recò anche a Roma dove conobbe Antonio Montanari, e a Firenze. Pisendel era un fanatico collezionista di musica e durante questo suo soggiorno in Italia, comprò e copiò musica a volontà. È anche grazie a questa sua caratteristica che oggi possiamo ancora contare circa 500 numeri di segnature che rimandano ad altrettanti pezzi di musica strumentale italiana. Molti concerti e sinfonie sono presenti nella doppia versione partitura/parti separate e spesso la partitura porta i segni di una sicura provenienza italiana: Pisendel, una volta assunta la direzione dell'orchestra, si preoccupò di far entrare nel repertorio effettivo della Cappella molta di quella musica raccolta in Italia, senza rinunciare a volte ad adattarla al suo gusto o agli usi locali, aggiungendo parti per oboi o arricchendo di virtuosismi la voce del violino concertante.
Vivaldi, Albinoni, A. e B. Marcello, Tartini, Geminiani, Torelli, G. Visconti, G.B. e L. Somis, G. Sammartini, G. M. Alberti, Locatelli, Brescianello, Veracini: sono solo alcuni dei compositori presenti in questa raccolta di Dresda.


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MARINELLA RAMAZZOTTI

Problemi di filologia in Y entoncens comprendiò e Risonanze erranti di Nono

Obiettivi dell'indagine filologica: - informazioni sul meccanismo della creazione e della genesi dell'opera al fine di rilevare l'evoluzione artistica del compositore, il senso musicale dell'opera e i suoi modelli stilistici, teorici, “parodici”, filosofico-politici; interpretazione di “convenues” linguistici e di questioni tecniche relativi alla prassi esecutiva delle opere.
Caratteri della tradizione testuale: - in Risonanze erranti esistenza di una tradizione plurima dell'originale orientato verso la “definizione”; - in Y entoces assenza di una versione compiuta dell'originale e conseguente necessità di un testo “trascrittivo” delle esecuzioni da confrontare con le fonti preparatorie.
Risultati raggiunti: l'indagine ha evidenziato l'esistenza tra le due opere di costanti di metodo (organicità tra opera intenzionale e opera reale, aderenza all'idea dell'opera strutturata sull'assoluta determinazione delle qualità vocali e tecniche degli interpreti, priorità del momento sperimentativo e conseguente fissazione parziale degli eventi singoli in partitura, impiego dell'autocitazione, della tecnica di frammentazione per l'integrazione "plurimotivica", rilettura delle tecniche e dei modelli della tradizione polifonica) e di “pensiero” (entrambe opere di sintesi storica, filosofica, artistica, unifìcate dall'ispirazione al principio filosofico-politico dei “caminantes”). Tale impostazione metodologica ha rilevato il ruolo determinante della filologia ai fini della decifrazione analitica e compositiva dell'opera. Problematiche aperte: in Y entonces da definire la configurazione strutturale del "Coro modulato" attestato dagli schizzi.


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SABRINA SACCOMANI

Un balletto “esotico” alla corte dei Savoia: I sette re della Cina (1621)

Nell'ambito dei festeggiamenti per il quindicesimo compleanno di Cristina di Francia – giovane sposa del principe Vittorio Amedeo, primogenito del Duca Carlo Emanuele I di Savoia – venne rappresentato uno dei primi spettacoli basato su una tematica che diventerà sempre più frequente nei soggetti delle feste cortesi sabaude: quello del favoloso mondo orientale.
Il balletto de I sette re della Cina venne allestito intorno alla metà di febbraio del 1621 al palazzo del principe Tommaso di Savoia (fratello di Vittorio Amedeo). In esso si rappresentava la venuta dei re della Cina, adoratori del Sole, per rendere omaggio alla beltà solare della festeggiata. Inventori del soggetto e verosimilmente autori dei versi per le arie furono lo stesso Carlo Emanuele I e Ludovico di San Martino d'Agliè.
La presenza dei musici di corte durante il balletto fu piuttosto consistente: più di trenta elementi tra cantanti e strumentisti. Ad essi fu affidato l'inizio dello spettacolo costituito da una canzonetta per l'entrata del balletto che, in omaggio al paese d'origine della festeggiata ebbe testo e musiche in stile francese. Se di questa canzonetta possediamo unicamente il testo e ignoriamo l'autore della musica, non così avviene per le arie del balletto, che furono composte da Sigismondo d'India. Si tratta di sei brani per quattro voci e basso continuo in seguito pubblicate nella raccolta Le musiche e balli a quattro voci con il basso continuo (Venezia, 1621), oggi conservata presso la Christ Church Library di Oxford.


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CRISTINA SANTARELLI

Iconografia musicale dell'incoronazione della Vergine nella pittura piemontese del Quattrocento

La relazione, accompagnata da diapositive, intende documentare l'evoluzione di un tema figurativo (l'incoronazione della Vergine tra angeli musicanti) assai diffuso nel Piemonte tardogotico, evidenziandone i rapporti con la cultura d'oltralpe e ponendo l'accento tanto sugli aspetti iconologici, quanto su quelli più legati all'ambito organologico.


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GIOVANNI SGARIA

Alcune osservazioni sulla strumentazione dei concerti di Giovanni Mossi (ca. 1680-1742)

Se prendiamo in esame la strumentazione della musica 'di concerto grosso' pubblicata nel secondo e terzo decennio del Settecento da un gruppo di violinisti-compositori romani - di nascita (Giovanni Mossi) o d'adozione (Corelli Locatelli Valentini) -, emergono con chiarezza due tendenze fondamentali:
1. La disposizione dei violini in quattro parti, delle quali la prima e la terza costituiscono rispettivamente le parti di primo concertino e primo ripieno, mentre la seconda e la quarta fungono da parti per il violino secondo concertino e il secondo ripieno, costituisce il modello. La suddivisione in concertino e ripieno, com'è noto, riflette una forma dì disposizione tipicamente romana sorta dapprima nella musica vocale fra il 1660 e il 1670 e ripresa in seguito da Corelli nella sua op. VI.
2. Rivolgendo viceversa l'attenzione alla viola e al basso continuo, salta subito all'occhio la molteplicità e l'irregolarità delle soluzioni proposte: la viola si trova solamente in alcune raccolte, e spesso è facoltativa; la sezione del continuo richiede sempre l'intervento complementare di due strumenti, uno d'armonia e uno di rinforzo della linea del basso, ma solo alcune raccolte impiegano un basso di concertino e uno di ripieno. È quantomeno singolare che, a conti fatti, soltanto l'Op. VII di Valentini conservi nella strumentazione il modello fissato dall'autorevole op. VI di Corelli, dove il gruppo del concertino mantiene intatti tutti gli strumenti della sonata a tre.
L'analisi esemplificativa di qualche brano delle Op. II, III e IV di Giovanni Mossi cercherà di chiarire fino a che punto il testo che ci tramanda la musìca, le evidenti irregolarità che emergono nella stampa Roger-Le Cène, riflettano la strumentazione originaria di brani realizzati certamente a Roma in varie epoche e per diverse occasioni. Alcune disomogeneità - verificabili soprattutto nelle prime due raccolte - nell'uso della viola e della sezione del continuo induce a ritenere che i 26 concerti non siano stati composti ed eseguiti così come oggi li leggiamo nella stampa. L'organico di ciascuna raccolta pubblicata degli editori olandesi, sempre diverso, è quello che più si adatta alla disposizione originaria delle parti, assai varia.


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MARIA GRAZIA SITÀ

La prassi del preludio improvvisato per tastiera tra Sette e Ottocento

È testimoniata la persistenza tra Settecento e Ottocento dell'abitudine ad improvvisare sulla tastiera un breve brano (chiamato variamente preludio, fantasia, capriccio...), prima di dare inizio ad un'esecuzione solistica o per piccolo gruppo strumentale. Le fonti da cui possiamo avere notizie sulla realtà fonica di queste improvvisazioni sono: 1) definizioni dei lessici e trattati o capitoli di trattati che riguardano specificamente questo aspetto (Grétry, Pollini, Asioli, Czerny...); 2) esemplificazioni di preludi fornite da trattati non specifici (di strumento o altri: Manfredini, Pfeiffer, Gervasoni...); 3) raccolte indipendenti di preludi nelle varie tonalità (Clementi, Viguerie ... e moltissimi altri); 4) riflessi nella scrittura di forme tradizionali (sonate o altro con parte introduttiva - scritta- di carattere preludiante: Galuppi, Sarti, Pollini...). Dall'osservazione delle testimonianze musicali emergono alcuni aspetti comuni: 1) fondamento armonico (il cui schema preferito pare essere il basso discendente armonizzato); 2) non-linearità stilistica all'interno del “preludio”; 3) continuità stilistica nell'ambito del corpus esaminato (con figurazioni del toccatismo tastieristico comuni - da Galuppi a Czerny - che fanno nascere un problema di periodizzazione: è una scrittura ancora barocca o già romantica?)
Viene in evidenza quindi una tradizione (parzialmente) “orale” di lunga durata (sia nella prassi che nello stile) che potrebbe forse essere osservata nei suoi aspetti di continuità addirittura dal toccatismo barocco agli interpreti-improvvisatori di fine Ottocento.


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SONIA TAMAGNI

Sul Seicento musicale a Cremona: contributi di Tarquinio Merula per l'Accademia degli Animosi

L'Accademia degli Animosi riprese vita nel 1644. L'attività proseguì solo per qualche anno e di questo periodo si ha una testimonianza importante in alcuni documenti coevi conservati all'Archivio di Stato di Cremona: gli atti di pagamento dei musicisti dal 1644 al 1650. Il dato fondamentale è la presenza di Tarquinio Merula come responsabile delle esecuzioni musicali durante le riunioni; accanto a lui altri musicisti, il cui nome non è mai scritto per esteso. Comunque le note di pagamento ci permettono di stabilire quale era l'organico musicale in ciascuna accademia: esso poteva variare da un minimo di due a un massimo di cinque voci e da due a tre strumenti (uno o due violini e un violone; in un caso si ha la presenza di un chitarrone). La presenza di Tarquinio Merula a Cremona in quegli anni era già certa (nel 1646 venne nominato maestro e organista della Cappella delle Laudi della Cattedrale); totalmente nuovo invece il dato della sua partecipazione alle accademie. Difficile è dire se tra le pubblicazioni del Merula si possano individuare componimenti di tipo accademico. Di questo periodo è Il quarto libro delle canzoni da suonare a doi et a tre: se si trascura il fatto non da poco che è musica esclusivamente strumentale, molti altri elementi rimandano all'Accademia degli Animosi. Primo: il volume è dedicato a Nicolò Ponzoni, di cui lo stesso Merula sottolinea l'importante ruolo di principe e promotore dell'attività accademica. Secondo: guardando la tavola dei componimenti contenuti nel volume, l'organico è quello che si ricava dalle liste di pagamento del tesoriere degli Animosi. Terzo: alcuni titoli dei componimenti si riferiscono ai cognomi dei membri dell'Accademia: l'Ariberta, la Speltina, la Scarinza, la Monteverda, ecc.


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ALFREDO TARALLO

Nuove luci sulla produzione strumentale di Mercadante

Se è vero che deI Mercadante operista poco si parla, è ancora più vero che del Mercadante compositore di musica strumentale si parla nient'affatto. In proposito registriamo solo due contributi recenti del flautista Gian Luca Petrucci, ma si tratta di semplici elenchi generici di opere strumentali e nulla più. La produzione strumentale di Mercadante, segnalata in fugaci occasioni dal Florimo e di rado menzionata nella successiva storiografia, rimane ancora oggi in gran parte relegata nell'oblio.
Il nostro lavoro vuole gettare luce sulla reale consistenza di un fondo di musica strumentale esistente in San Pietro a Majella ancora per molti versi sconosciuto, lacunosamente inventariato e solo in parte cataIogato. Un nostro previo sondaggio circa la consistenza deI succitato 'fondo' mercadantiano ha dato esiti di gran lunga superiori a ogni aspettativa: pagine e pagine di brani sinfonici, destinati al ballo, cameristici, bozze e partiture compIete per vari organici, opere spesso ignote ai cataloghi della Biblioteca. Si tratta di una tale copia di materiali da sollecitare con urgenza un'attenta riconsiderazione della personalità di Mercadante che, alla luce dei dati riscontrati, sembra avvicinarsi a quel profilo suggerito da Michael Wittmann, finora basato su sole ipotesi, eppur tale da farlo affermare: “... Mercadante, per quanto ci è testimoniato, non volle dedicarsi alla professione del compositore d'opera .. Questo viene confermato sia dall'iniziale predilezione per le musiche strumentali, che dal primo approccio alle scene con la composjzione di tre balli. Anche il maestro di Mercadante, Zingarelli, sembra aver consigliato originariamente la prudenza, come riferisce una nota dell'AMZ del novembre del 1819”. Un'ipotesi affascinante davvero, che tuttavia alla luce dei dati oggi da noi riscontrati suona come profetica a dir poco.


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MARINA TOFFETTI

Alcuni documenti inediti sui fratelli Tini, editori musicali a Milano (1583-1612)

Alcuni documenti sino ad ora inediti, rinvenuti presso l'Archivio di Stato e presso L'Archivio Storico Diocesano di Milano, hanno consentito di gettare nuova luce sugli esordi milanesi dell'attività imprenditoriale dei fratelli Tini (De Tinis), attivi dapprima come librai, poi dediti anche all'editoria. Sono inoltre emerse alcune informazioni che illuminano lo status socio-economico dei Tini e consentono di delineare l'ambiente fisico-geografico che faceva da sfondo alle loro attività: il Broletto con la bottega di un loro zio, posta accanto a quella di un cartaro, e più tardi alla loro, acquistata da un forestiero con un esborso considerevole a riprova della loro fortuna ormai consolidata.
Va sottolineato come non solo le botteghe, ma anche le abitazioni dei principali esponenti dell'editoria musicale milanese erano site per lo più nella stessa zona: tanto San Michele al Gallo (dove abitava Antonio Degli Antoni con famiglia e servitù), che San Tommaso in Terra Mara (dove, dopo numerosi cambiamenti di domicilio, si erano finalmente stabiliti i Tini), che San Protaso ad Monachos (dove risiedevano Paolo Gottardo Pontio e - probabilmente - lo stesso Francesco Tini nel 1584) si trovavano nella circoscrizione di porta Comasina, vicino al centro, al Broletto e al Laghetto (e dunque in una zona strategica per lo sdoganamento delle merci, che allora venivano trasportate dai barconi sui navigli).
Dagli stessi documenti sono inoltre emersi elementi che consentono di ricostruire rapporti diretti (e, in taluni casi, di parentela) dei Tini con alcune figure di indubbio rilievo nel panorama dell'editoria musicale milanese (è il caso di Paolo Gottardo Pontio e del Lomazzo, che figurano a vario titolo al fianco dei fratelli Tini in alcuni documenti notarili degli ultimi decenni del Cinquecento), veneziana (Antonio Degli Antoni, in contatto diretto con gli ambienti dell'editoria veneziana, avendo funto da trampolino di lancio delle attività milanesi dei tre fratelli), bresciana (con particolare riferimento alla zona del Sabbio e alle diverse figure che vi erano attive alla fine del Cinquecento).
L'interesse dei dati emersi dai documenti presi in esame, al di là dell'indubbio rilievo delle informazioni di carattere biografico che essi forniscono (informazioni che consentono di colmare, per lo meno in parte, le numerose lacune di cui sono costellate le scarse e scarne monografie dedicate alle principali figure dell'editoria musicale), consiste principalmente nella fitta e variegata rete di interconnessioni fra le diverse figure attive (anche in centri diversi) nello stesso settore che essi consentono di delineare.


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WOLFGANG WITZENMANN

Le due Messe lateranensi: opere di Paolo Agostini?

Nel primo vol. dei "MMI" i curatori Oscar Mischiati e Luigi Ferdinano Tagliavini pubblicano (1975) due messe dall'Archivio Capitolare di San Giovanni in Laterano, attribuendole a Frescobaldi. In quanto ,riguarda l'attribuzione di questi ms. adespoti, i curatori seguono l'opinione di Casimiri (1933), con il quale ritengono anche che Frescobaldi avrebbe scritto le due messe tra il 1628 e il 1634 a Firenze. Warren Kirkendale (1972) aveva già contemplato la possibilità che le messe non potrebbero essere opere di Frescobaldi (la dicitura “G. Fr” della parte di organo della prima messa potrebbe riferirsi non al compositore bensì all'esecutore) - anche perché il testo liturgico dell'“Agnus Dei” in ambedue le messe evidenzia chiaramente una loro destinazione per il Laterano.
In tempi più recenti (1986), Claudio Annibaldi riprende l'argomentazione di Kirkendale rafforzandola. Soprattutto, Annibaldi identifica l'amanuense in Nicolò Borboni dimostrando con buona evidenza che alcuni interventi della mano di Frescobaldi nella prima messa non riguardano in nessun caso cambiamenti della sostanza musicale. Di grande valore in Annibaldi è la precisa identificazione della filigrana esclusiva dei due manoscritti e la sua collocazione ben circoscritta, in ambito romano, nel periodo attorno il 1625.
Guardando la vita liturgica a S. Giovanni nel periodo in questione, ci imbattiamo nella festa Dedicazione (9 novembre) del 1626. Siccome il nuovo maestro di cappella, lo spagnolo Antonio de Oliveira, non era ancora in servizio, la musica - ci informa una giustificazione del 1626 - venne affidata al maestro di cappella di S. Pietro, allora Paolo Agostini (1583-1629). A1 primo organo fu Frescobaldi, al secondo Alessandro Costantini, organista di S. Maria Maggiore, e al terzo un Giovanni di S. Lorenzo in Damaso. Proprio a quest'occasione liturgica certamente va riferito il materiale delle nostre messe, e cioè per il concorso di tre precise circostanze: 1) il materiale è destinato alla consuetudine liturgica di S. Giovanni; 2) la filigrana, in uso a Roma, indica con buona approssimazione il periodo attorno il 1625; 3) il manoscritto della prima messa sembra indicare Frescobaldi almeno come suonatore del primo organo.
A questo punto si pone la domanda, se Agostini come maestro di cappella della festa in questione, può essere preso in considerazione come compositore delle messe. Rispondendo affermativamente, non voglio e non posso offrire più di un'ipotesi - anche perché gli studi su Agostini sono ancora tutti da svolgere.