organizzato dal Rotary Club di Arezzo
in collaborazione con l'Associazione Culturale Gamut
con il patrocinio della Società italiana di Musicologia
e del Comune di Arezzo

 

Convegno internazionale di studi

Arezzo, Hotel Continentale

26-27 aprile 2002

Sommario e abstract degli Atti

Programma e resoconto

venerdì 26 aprile, ore 9,30

  • Indirizzi di saluto:
    • Rosario Carbè (presidente Rotary Club di Arezzo);
    • Giorgio Pinai (direttore artistico dell'Associazione Gamut);
    • Claudio Santori (Rotary Club di Arezzo);
    • Bianca Maria Antolini (presidente della Società italiana di Musicologia)
  • presiede: B.M. Antolini

    • John W. Hill, “Ov' el decoro?”: Reconciling court etiquette, affective expression, and aria treatment in Cesti's Orontea
    • Robert Kendrick, Una diversa versione di “Pria che t'adori” alla Newberry Library di Chicago
    • Herbert Seifert, Cesti and his opera troop in Innsbruck and Vienna



venerdì 26 aprile, ore 15,30

  • presiede: Paola Besutti
    • Carl B. Schmidt, The transmission of Il Tito: a new assessment
    • Elisabetta Torselli, Giacinto Andrea Cicognini librettista di Cavalli e Cesti: appunti sulla librettistica di medio Seicento
    • Marc Vanskeeuwijck, The baroque equestrian ballet: a rediscovered example by the bolognese composer Giovanni Paolo Colonna (1676)
    • Mariateresa Dellaborra, “È morta Euridice”. Influenze di Cesti sull'Orfeo di Sartorio



sabato 27 aprile, ore 9,30

  • presiede: Sara Mamone
    • Paola Besutti, Ad introdurre “un essercitio d'arme'': il 'Regio schiavo' a Mantova (1672)
    • Françoise Siguret, Armonia e contrappunto iconografici. A proposito delle incisioni di M. Küssel per Il Pomo d'Oro
    • Sara Dieci, Le cantate da camera di Cesti

 

sabato 27 aprile, ore 21

Chiesa di S. Maria dei servi (pieve): concerto con musiche di Antonio Cesti.
Ensemble More maiorum, direttore Peter van Heyghem.

 

Comitato scientifico: Alberto Cecconi, Piero Gargiulo, Antonio Marcellino, Giorgio Pinai, Claudio Santori


Resoconto

La figura e l'opera del compositore Antonio Cesti sono stati oggetto del recente Convegno Internazionale di Studi, svoltosi nei giorni 26 e 27 aprile 2002, ad Arezzo, città natale del musicista. Questa iniziativa è stata possibile grazie al Rotary Club e all'Associazione Gamut, con il patrocinio della Società Italiana di Musicologia e del Comune di Arezzo. Dopo alcuni brevi indirizzi di saluto di Rosario Carbè (presidente Rotary Club di Arezzo), Giorgio Pinai (direttore artistico dell'Associazione Gamut), Claudio Santori (Rotary Club di Arezzo) e Bianca Maria Antolini (presidente della Società italiana di Musicologia) sono iniziati i lavori del convegno.

La prima relazione, di John W. Hill (“Ov'è 'l decoro?”: etichetta di corte, espressione degli affetti e messa in scena delle arie nelle opere storiche di Antonio Cesti) ha offerto un taglio di tipo socio-antropologico, prendendo spunto dagli studi di Norbert Elias. Hill ritiene che da questo punto di vista l'Orontea segni uno spartiacque nella produzione operistica di Cesti. Al pari del Giasone di Francesco Cavalli, l'Orontea (1656), che risale all'epoca del primo soggiorno di Cesti presso la corte di Innsbruck, fu tra le opere più celebrate e più spesso eseguite dell'intero Seicento. Incentra la propria trama su un intrigo amoroso, evidenziando i conflitti tra passione e dignità regale, tra amore e decoro. La dignità regale e l'etichetta di corte rivestivano la massima importanza nella cultura e nell'ideologia della nobiltà all'inizio dell'età moderna, soprattutto in seguito a quel processo di urbanizzazione e civilizzazione da parte del ceto nobiliare, che condurrà alla promozione di valori culturali, quali la raffinatezza e l'autocontrollo. Quanto più all'apice della gerarchia di corte si trova l'individuo, maggiore sarà l'autocontrollo che ci si aspetterà da esso nell'espressione degli affetti. Al vertice della gerarchia di corte sta, naturalmente, il monarca. In quel periodo i monarchi divennero sempre più soggetti ad elaborati codici di comportamento e di etichetta creati, imposti e controllati proprio da quei cortigiani che, tecnicamente, erano al loro servizio.

Tali regole di comportamento e di etichetta, caratterizzanti la realtà del Seicento, si riscontrano anche nell'Orontea, dove il personaggio regale difficilmente si lascia trascinare dalle proprie emozioni. Orontea non dichiara mai il suo amore per Alidoro in presenza d'altri, ad esclusione del finale. La prima e più comune definizione del termine decoro è dignità nell'aspetto e nel comportamento. In tal senso il personaggio di Orontea è decoroso, poiché agisce con moderazione e non esprime pubblicamente le sue passioni. La moderazione, che caratterizza il personaggio, è conforme a ciò che gli europei secenteschi si aspettavano dai loro monarchi.

Questa coerenza nel trattamento dei personaggi, sostiene Hill, così intimamente legata al rango sociale, sembra essere una importante caratteristica, trascurata però dagli studiosi moderni di opera secentesca. Tali scelte coincidono con l'emergere di nuove tendenze che determineranno l'affermarsi dell'assolutismo, ponendo sempre maggiori vincoli e restrizioni alla figura regale. In conclusione, Hill ha fatto notare che, a partire dall'Orontea, i personaggi regali nelle opere storiche di Cesti non cantano mai arie in presenza di altri personaggi; nel Tito (1666) si nota che Tito canta le sue arie “partendo,” non ascoltato dagli altri. Questo spiega, secondo Hill, l'origine e la ragione della regola dell'aria di uscita, che diventerà generalizzata negli anni successivi.

Robert Kendrick (Una diversa versione di “Pria ch'adori” alla Newberry Library di Chicago) ha sottoposto all'attenzione una versione del duetto di Cesti “Pria ch'adori”, su testo di Giovanni Lotti, contenuta nel manoscritto VM 1619 M98 conservato alla Newberry Library di Chicago, contenente anche altre composizioni anonime, e di diversi autori. Obiettivi del lavoro di Kendrick sono stati l'analisi del contenuto del manoscritto, della cantata di Cesti in esso conservata e i motivi che hanno indotto il compilatore ad includerla nello stesso. A un primo sguardo il manoscritto sembra essere una normale raccolta di cantate del XVII secolo. Contiene dieci cantate a voce sola e una versione per due contralti di “Pria ch'adori”, trasposta una quinta sotto rispetto all'originale. L'aspetto più caratteristico del volume consiste nel fatto che tutte le linee vocali sono scritte in chiave di contralto, quindi molti dei brani furono trasposti allo scopo di ottenere una omogeneità vocale. Il codice contiene alcune brevi ariette e alcune cantate più corpose, suddivise in sezioni multiple. Il duetto “Pria ch'adori” si trova nel mezzo del codice ed è chiaro che occupa una posizione centrale nella sua concezione.

Le attribuzioni presenti nel volume sono solo tre e riguardano Cesti, P. Lorenzani e G. B. Giansetti. I restanti brani del manoscritto possono essere in parte attribuiti tramite concordanze. Una prima analisi dei singoli pezzi suggerisce alcune osservazioni sulla natura del volume, come ad esempio l'alternanza irregolare di pezzi virtuosistici ed ariette. Data l'omogeneità del registro vocale, sembra logico pensare che il compilatore abbia destinato il suo lavoro a un singolo cantante, forse a se stesso. Il repertorio è in relazione con ambienti sociali diversi, cosicché il possessore del volume potrebbe essere stato un virtuoso o una virtuosa itinerante, come per esempio Giovanni Francesco Grossi detto Siface.

Quale unico brano non solistico del volume, “Pria ch'adori” potrebbe aver avuto la funzione di modello. Kendrick ha proposto un'analisi esauriente delle caratteristiche di questa versione del duetto. Le strategie musicali di Cesti riflettono strettamente quelle del testo. L'analisi del brano suggerisce una logica musicale e una struttura tonale molto chiare. La linea vocale tonale, nell'intonazione di Cesti, è molto diretta e forse proprio per questo ha esercitato così a lungo il suo fascino su cantanti e compilatori: esso sopravvive infatti in nove fonti ed è probabilmente uno dei brani di Cesti più noti agli ascoltatori moderni grazie ad una registrazione effettuata dal Concerto Vocale nel 1978, riversata successivamente su compact disc.

Herbert Seifert (Cesti and his Opera Troupe in Innsbruck and Vienna), ha incentrato la sua relazione su Cesti e la sua compagnia stabile a Innsbruck e a Vienna, con notizie relative al suo ultimo anno di vita a Firenze. Il suo intervento si è avvalso di documentazione finora inedita, fra cui undici lettere autografe che Cesti scrisse nel periodo in cui operò a Vienna. Si sono così potute apprendere preziose informazioni riguardo i musicisti italiani che lavorarono al fianco di Antonio Cesti nell'allestimento delle sue opere. Sono inoltre venute alla luce notizie sugli ultimi lavori del compositore, sui particolari della sua partenza da Vienna e dati relativi al suo ultimo anno di vita. Seifert ha ripercorso tutta la carriera di Cesti alle corti di Innsbruck e Vienna, esaminando la compagnia di cantanti da lui diretta; ha anche reso nota una lista dei cantanti, scritta da un contemporaneo in una delle copie del libretto dell'Argia, che attesta la partecipazione di Cesti stesso nel ruolo di Atamante Re di Cipro. I nuovi documenti segnalati da Seifert hanno consentito di attribuire a Cesti l'opera Artaxerse, overo, L'Ormonda costante. La musica di quest'opera, rappresentata (su testo di Aurelio Aureli) nel 1669 al teatro Santi Giovanni e Paolo, è stata fino ad ora attribuita a Carlo Grossi, mentre potrebbe essere stata l'ultima partitura di Cesti. L'altra composizione alla quale Cesti aveva iniziato a lavorare era Il Genserico, il cui libretto fu stampato nel 1669 per una rappresentazione nello stesso teatro. Inoltre è stato messo in luce il ritrovamento di uno scenario della prima de La Dori.

La relazione di Carl B. Schmidt (The transmission of “Il Tito”: A New Assessment), dedicato a Il Tito di Cesti, è frutto di una precisa e puntuale ricognizione delle fonti letterarie e musicali dell'opera stessa. Melodramma in tre atti, su libretto di Nicolò Beregan, Il Tito fu rappresentato al teatro SS. Giovanni e Paolo a Venezia nel 1666. A differenza di altre opere cestiane, Il Tito è stato oggetto di studi prevalentemente legati alla committenza e alle difficoltà di produzione su palcoscenico veneziano. Obiettivo del lavoro di Schmidt è stata l'analisi della provenienza letteraria e musicale dell'opera. Tale analisi è stata confortata da un importante lavoro di collazione tra le fonti, ampiamente descritte durante l'intervento. In rilievo è stata posta la figura di Beregan e di particolare attenzione ha goduto il libretto del 1666, fondamentale per il confronto con le partiture superstiti e per la presenza di significative caratteristiche. Sono state inoltre evidenziate le differenze relative alla concezione del libretto, e quindi alla trama, che si riscontrano nelle varie stesure successive del testo, queste ultime testimoni della popolarità di questo personaggio storico in ambito operistico. Schmidt ha terminato il suo intervento con una interessante carrellata di rappresentazioni moderne delle opere di Cesti nei più importanti teatri del mondo.

Nel contributo di Elisabetta Torselli (Giacinto Andrea Cicognini poeta di Cavalli e Cesti: note sulla librettistica di medio Seicento), l'attenzione si è spostata sul librettista Giacinto Andrea Cicognini, autore del testo, con integrazioni di Apolloni, dell'Orontea di Antonio Cesti. Il libretto di Orontea è stato descritto come caratteristico di una situazione nuova che va delineandosi nella drammaturgia italiana della metà del Seicento. Una forte intrusione di elementi di avventura e peripezie trova spazio in questo testo, come si verifica in altri libretti precedenti dello stesso Cicognini. Punto di partenza della Torselli per tentare di spiegare le scelte stilistiche dell'autore nei suoi successivi libretti è stato il primo dramma per musica di Cicognini, Il Celio (1646). Particolare importanza acquista la trama del Celio per lo schema impiegato, schema caro a Cicognini, basato sull'uomo che si barcamena fra due donne, come avviene pure nell'Orontea e nel Giasone di Cavalli. Inoltre, pare che della trama non esistano altre fonti, eccezion fatta per il lavoro in prosa Don Gastone Moncada. Si tratta quindi di una storia originale. Nella trama viene soprattutto evidenziata la forte influenza del teatro spagnolo, ricco di intrecci, conflitti d'onore, passionalità, ribaltamenti di situazioni. Questo si può spiegare con il fatto che Firenze fu un importante centro di ricezione del teatro spagnolo, soprattutto di Lope de Vega. I libretti di Cicognini, rispetto a quelli delle opere precedenti, presentano un diverso ritmo drammaturgico, una diversa passionalità, sono cioè "teatro irregolare". Vicende plurime che si intrecciano su diversi registri, gli immancabili travestimenti, gli equivoci, sono tutti elementi che ritroveremo in Orontea, come pure ne La Dori. Questa nuova tendenza, ancor prima che nelle opere, è presente nel teatro parlato di Cicognini, caratterizzato da bellissime commedie che conobbero una grande fortuna editoriale per tutto il Seicento.

Nel suo intervento (The Baroque Equestrian Ballet: a Rediscovered Example by Bolognese Giovanni Paolo Colonna) Marc Vanskeeuwijck ha incentrato la propria attenzione su un genere musicale molto in voga presso le corti europee del periodo barocco. Si tratta del Torneo, spettacolo non solamente musicale, ma soprattutto basato sul teatro, con battaglie simulate, coreografie e balli con cavalieri a piedi e a cavallo e ingegnose macchine sceniche. Le città che, più di altre, videro protagonista questo tipo di spettacolo con balli a cavallo furono Bologna, Modena e particolarmente Ferrara e, nel resto d'Europa, Parigi, Monaco e Vienna. Sfortunatamente quasi nessuna musica è sopravvissuta per questi balli. Invece, per il Torneo preso in esame da Vanskeeuwijck, scritto in occasione del matrimonio di Beatrice Bentivoglio con il Conte Ercole Pepoli nel 1676, si è conservato anche la parte musicale del compositore Giovanni Paolo Colonna.

Dal confronto con altri lavori del musicista bolognese, Vanskeeuwijck ha potuto evidenziare nel Torneo un consistente numero di recitativi, una strumentazione meno colorita, parti vocali meno virtuose, semplici schemi ritmici spesso ripetuti, sviluppi armonici molto semplici e un madrigale finale estremamente breve, di sole dodici battute. Ma ciò non significa che la musica per l'Introduzione, le Macchine e la Conclusione del Ballo Equestre sia di qualità inferiore rispetto agli altri lavori del compositore. La funzione della musica, in questo particolare spettacolo, è chiaramente subordinata all'elemento visivo ed è per questo che Colonna optò per una più semplice ed efficace interpretazione del testo, ben adatta all'occasione particolare.

Lo studio di Mariateresa Dellaborra (“È morta Euridice”: influenze di Cesti sull'Orfeo di Sartorio) ha cercato di porre in evidenza la probabile influenza di Antonio Cesti sull'opera di Antonio Sartorio. La collocazione di Cesti in un preciso ambito stilistico, ancora oggi piuttosto controverso, ha reso più complesso e difficile lo studio, e forse anche la riscoperta, della sua produzione musicale. Cesti si è visto finora attribuire il ruolo, che invece non ebbe mai, di antagonista di Francesco Cavalli. Anziché evidenziare contrapposizioni e antagonismi, oggi pare più giusto affermare che Cesti abbia convissuto serenamente con Cavalli e forse abbia rappresentato una nuova fase operistica veneziana, soprattutto se si considerano le opere appartenenti ad un convenzionale secondo periodo creativo. Da studi recenti, pare di poter individuare La Dori come l'opera di demarcazione per questa seconda fase. Al pari di Cavalli, dunque, Cesti contribuisce a formare la successiva generazione di compositori veneziani, cui appartiene, fra gli altri, Antonio Sartorio, da molti riconosciuto importante epigono di Cavalli. Certamente le influenze stilistiche subite da Sartorio negli anni di formazione recano l'impronta di Cavalli, ma non sono del tutto estranei anche molti atteggiamenti compositivi presenti nelle opere di Cesti.

Allo scopo di evidenziare i tratti peculiari e le connessioni tra l'opera di Cesti e quella di Sartorio, Dellaborra ha concentrato l'attenzione su precise partiture del primo, La Magnanimità di Alessandro, La Dori, Tito, Le Disgrazie d'Amore, La Semirami e su un'opera specifica di Sartorio, che più di ogni altra pare risentire di un influsso cestiano. Si tratta dell'Orfeo, su libretto di Aureli e di Sartorio stesso, rappresentata nel 1672, tre anni dopo la morte di Cesti.

Secondo Dellaborra non solo la scrittura musicale, ma anche l'alternanza estremamente efficace del recitativo secco e di quello accompagnato, la tipologia delle arie, l'uso di specifici passaggi imitativi e descrittivi in momenti topici e l'impiego di un mirato accompagnamento strumentale, avvicinano Cesti a Sartorio che proprio con Orfeo sembra orientarsi verso altri e più moderni propositi espressivi.

L'intervento di Paola Besutti (Ad introdurre “un esercitio d'arme”: “Il Regio Schiavo” a Mantova, 1672) ha evidenziato la singolarità di un episodio di ricezione, della fortuna e del riuso spettacolare de La Dori. Questa particolarissima ripresa ebbe luogo nel Teatro di Castello della corte di Mantova in un mese non ancora precisato del 1672. Nel libretto de Il Regio Schiavo mantovano, privo di dedica e del nome degli interpreti, non viene precisato il nome dell'autore delle musiche, ma è probabile che fosse proprio Cesti. Dal libretto sono emerse delle informazioni molto importanti, prima fra tutte la partecipazione di interpreti aristocratici non professionisti e la presenza del finale essercitio d'arme da parte di altri cavalieri. Sebbene tale rappresentazione dilettantesca sembri inverosimile, tuttavia la storia musicale gonzaghesca indica che messe in scena 'per diletto' non fossero un evento inconsueto in quella corte. Paola Besutti riconduce questo tipo di episodi a quel processo di mitizzazione dell'improvvisazione teatrale, tanto in voga nel primo Seicento, che diede origine a quelle rappresentazioni musicali dette proprio all'improvviso. L'epilogo, ossia il ballo in foggia di armeggiamento, costituisce un'ulteriore peculiarità della rappresentazione: tale sezione era, almeno nelle intenzioni espresse nel libretto, talmente importante da costituire la ragione vera dello spettacolo.

La Besutti aveva ritenuto in un primo momento che La Dori mantovana facesse parte di un circuito di tipo commerciale di chiara orbita veneziana. Ulteriori ricerche hanno man mano allontanato questa rappresentazione dall'ambito veneziano, ritenendola invece una sorta di caso a sé. In questo studio, l'indagine sulle fonti musicali e librettistiche de La Dori mantovana ha confermato la prossimità di questo evento con il contesto culturale e spettacolare padano. Tale rappresentazione potrebbe essere interpretata come una piccola summa di diverse peculiarità conviventi in quell'area culturale-geografica: la rappresentazione per diletto, tipica almeno in quegli anni dell'ambiente mantovano, unita alla tradizione degli armeggiamenti, peculiare dell'ambiente ferrarese, esplicitamente citato come modello.

Il tema mitologico de Il Pomo d'oro di Cesti, inserito in un vasto contesto iconografico, è stato argomento centrale nella relazione proposta da Françoise Siguret (Armonia e contrappunto iconografici: Sulle incisioni di M. Küssel per “Il Pomo d'oro). Tale contesto, tradotto in immagini come quelle dell'incisore Matthäus Küsel, che prendono spunto dai disegni dello scenografo Ludovico Burnacini, riflette gli effetti fugati della composizione musicale, rimanendo fedeli alle concezioni di Sbarra e di Cesti. La trama de Il Pomo d'oro austriaco non è che un'ulteriore variazione sul tema del giudizio di Paride, già abbondantemente trattato da poeti, pittori e incisori. In questo immenso quadro epico il pretesto del mito di Paride e del pomo d'oro conteso fra Giunone, Pallade e Venere viene risolto con l'intervento di Giove che decreta di assegnare il pomo alla sposa imperiale. Nell'intervento di Siguret particolare importanza è stata conferita al personaggio della Discordia, ovviamente interpretata come causa di errori e ingiustizie, che tiene il dramma sospeso fra armonia e disarmonia. Vengono citati altri episodi mitologici che fanno parte del contesto iconografico, sebbene non presenti nel libretto di Sbarra. Questi episodi, ampiamente documentati con l'illustrazione di immagini, come ad esempio il ciclo delle fatiche di Ercole, costituiscono la sostanza metaforica presente anche nella dedica dell'autore alla coppia imperiale. I continui riferimenti dell'opera alla realtà politica del regno asburgico e alla glorificazione dell'imperatore Leopoldo I vengono ben rappresentati nelle incisioni di Küsel e nei disegni di Burnacini.

Nella relazione di Sara Dieci (Le Cantate da camera di Cesti) sono stati evidenziati i problemi relativi all'attribuzione di molte delle cantate di Cesti, il più lampante fra tutti generato dall'omonimia di Antonio Cesti con il nipote Remigio, anch'egli abate. Inoltre sono stati discussi problemi relativi alla datazione, alla terminologia impiegata nella definizione di questo genere musicale, per il quale venivano adottati inizialmente termini come canzonetta, capriccio, ottava, ecc., appunto quelli che si ritrovano nelle composizioni da camera cestiane. Le forme adottate da Cesti per la cantata non osservano una coerenza strutturale. Si tratta di una forma non ancora pienamente definita dal punto di vista formale, ma di un genere ancora in divenire. È la dimensione e la morfologia stessa dell'aria a caratterizzare la cantata. Alcune sono brevissime ariette, altre sono strofiche e altre ancora sono caratterizzate da una maggiore estensione. Interessanti osservazioni hanno investito anche alcune composizioni da camera di Cesti che, pur rientrando nell'ambito delle cantate, di fatto sono molto lontane da questo genere. Nel contesto della prassi esecutiva, singolare il caso di una sorta di lezione di canto che Cesti offre all'interno della cantata Aspettate adesso canto. È una scena lirica a solo il cui protagonista non è un personaggio storico, bensì il cantante che si accompagna da solo al cembalo, probabilmente Cesti stesso. La Dieci ha evidenziato in molti di questi componimenti una sorta di autobiografismo da parte dell'autore, vedendo nella cantata uno specchio di vita quotidiana.

Il convegno si è concluso con un concerto dell'ensemble More Maiorum diretto da Peter van Heyghen, in cui sono state eseguite musiche di Cesti e di Schmelzer.

Silvia Scozzi