Bolzano, Conservatorio di Musica “Claudio Monteverdi” / Musikhochschule Claudio Monteverdi Bozen, Piazza Domenicani, 19

Bolzano, Kolping Haus, Largo Adolph Kolping, 3

19-21 ottobre 2018 

Dépliant

Informazioni logistico-ricettive

Modulo di delega

Programma e abstract

Venerdì 19 ottobre, ore 9:00

Sala Josef

Indirizzi di saluto

  • Paolo Lugli, magnifico Rettore della Libera Università di Bolzano
  • Giacomo Fornari, Direttore del Conservatorio di Musica Claudio Monteverdi
  • Elettra Vassallo, Direttrice delle Scuole di musica in lingua italiana della provincia autonoma di Bolzan
  • Francesco Passadore, Presidente della Società Italiana di Musicologia

 

Venerdì 19 ottobre, ore 10:00 

Kolping / Sala Josef, I sessione – presiede Paola Besutti

  • Francesca Piccone, Il progetto sonoro nel torneo alla sbarra per le occasioni medicee del 1579 e 1589. Musica fra allegoria, esecuzione e apparato. Abstract.
  • Christine Suzanne Getz, Competition, expansion, and liquidation at the Tradate press 1598-1612. Abstract.
  • Marco Giuliani – Nicolò Maccavino, Madrigali a cinque voci di Jean de Macque: esegesi sui testi e sulle musiche del VI Libro, Venezia 1613 . Abstract.

pausa caffè 

  • Gioia Filocamo – M. Luisa Baldassari, Andrea Antico da Roma a Cracovia: testo musicale e contesto sociale della prima intavolatura italiana per tastiera a stampa. Abstract.
  • Michael Klaper, Osservare il compositore al lavoro: come si scrive e riscrive una scena d’opera italiana nel Seicento. Abstract.
  • Marko Deisinger, «Tutto il Drama è infelice». An account of the venetian premiere of Giovanni Legrenzi’s opera Eteocle e Polinice (1675) archived in Vienna. Abstract.

 

Kolping / Sala Gruppenraum2, II sessione – presiede Licia Sirch 

  • Florian Bassani, L’Euterpe ticinese di Chiasso. Particolarità di una casa editrice musicale di confine durante il Risorgimento. Abstract.
  • Mariacarla De Giorgi, Sophie de Bawr e la sua Histoire de la musique per l’Encyclopedie des Dames: la nascita di una musicologia al femminile nella Francia postrivoluzionaria. Abstract.
  • Giampiero Buzelli, Clavicembali e strumenti a tastiera a Genova tra XVII e XVIII secolo. Abstract.

pausa caffè 

  • Mariateresa Storino, Liszt in Italia: tracce inedite di soliloqui musicali. Abstract.
  • Alceste Innocenzi, «Lontano dalle dispute, visse di sola musica». Un manoscritto inedito di Giovanni Sgambati. Abstract.
  • Chiara Bertoglio, Martucci interprete bachiano: le trascrizioni per pianoforte e la divulgazione. Abstract.

 

Venerdì 19 ottobre, ore 14:30

Kolping / Sala Josef, III sessione – presiede Giacomo Fornari 

  • Anna Ficarella, The role of the ‘organized sound’ in Mahler’s creative process. Abstract.
  • Maria Adele Ambrosio, Radio Bolzano. Storia, ricezione e programmazione musicale tra il 1928 e il 1943. Abstract.
  • Nicola Montenz, I canti di Antigone: musica e coscienza individuale nella Germania nazista . Abstract.

pausa caffè 

  • Attilio Cantore, «Contemporanei si nasce, e non lo si diventa!»: Mario Castelnuovo-Tedesco e il pianoforte. Abstract.
  • Candida Felici, Max Weber e la musica: considerazioni attorno alla Musiksoziologie. Abstract.
  • Rossella Gaglione, «La musique est un domaine où on n’a pas à être cohérent»: André Suarès maître à penser della Musicologia?. Abstract.

 

Kolping / Sala Gruppenraum2, IV sessione – presiede Paologiovanni Maione 

  • Ignacio Rodulfo Hazen, Adriana Basile e l’aria spagnola in Italia (1580-1640). Abstract.
  • Giovanna Barbati – Guido Olivieri, Un manoscritto inedito di Antonio Guida per violoncello: un esempio di didattica napoletana del Settecento. Abstract.
  • Sandro Cappelletto, Dalle sonate di Domenico Scarlatti allo zum-pa-pa. Nuove ipotesi sull’origine della lunga catastrofe della musica strumentale italiana. Abstract.

pausa caffè 

  • Alberto Mammarella, Un ‘eccezionale’ caso di intertestualità: la Missa ad imitationem Vestiva i colli di Giovanni Battista Sandoli (Napoli, 1613). Abstract.
  • Marilena Laterza, Poliautorialità e riscrittura a Napoli nel tardo Settecento: il caso dei «Duettini sopra i salmi di Mattei». Abstract.
  • Alessandro Mastropietro, Girolamo Arrigo e gli esordi del teatro musicale sperimentale in Francia (1969-1972). Abstract.

 

Sabato 20 ottobre, ore 9:30

Kolping / Sala Josef, V sessione – presiede Antonio Caroccia 

  • Domenico Prebenna, Il repertorio veneziano a Napoli ai tempi di Pietro Andrea Ziani. Abstract.
  • Maurizio Rea, Il Conservatorio di Santa Maria di Loreto, tra carte di musica e carte d’archivio. Abstract.
  • Lorenzo Mattei, La mia Cecchina è un castrato! L’opera buffa degli evirati cantori Abstract.

pausa caffè 

  • Paola De Simone, Il Credulo deluso di Giovanni Paisiello (1774) dal Teatro Nuovo al Real Teatro di Caserta: nuovi dati documentali dal Conto delle spese dell’Archivio Farnesiano. Abstract.
  • Tommasina Boccia – Marina Marino, La Lucia di Lammermoor di Donizetti nelle fonti dell’archivio storico del Conservatorio di musica “San Pietro a Majella”. Abstract.
  • Claudio Bacciagaluppi – Giulia Giovani, “Creating the neapolitan canon”: un bilancio a chiusura del progetto. Abstract.

 

Kolping / Sala Hörsaal2, VI sessione – presiede Francesca Seller 

  • Gianrocco Maggio, «Fabbricante e maestro d’organi»: Vincenzo de Micheli (1822-1869) e il patrimonio organario di Terra d’Otranto nell’Ottocento. Abstract.
  • Francesco Nocerino, Pianoforti Pleyel a Napoli. Abstract.
  • Leonardo Miucci, Il linguaggio pianistico di Beethoven: alcune considerazioni sulle agogiche, «dim. vs. decresc.». Abstract.

pausa caffè 

  • Antonio Dell’Olio, Giuseppe Tricarico da Gallipoli (1623-1697) tra Roma e Vienna: il caso dell’oratorio musicale Adamo ed EvaAbstract.
  • Maria Venuso, Chopin e la danza del Novecento: ‘ascoltare con gli occhi’ la generazione romantica. Abstract.
  • Alberto Macrì, La didattica della storia della musica in una prospettiva inclusiva. Abstract.

 

Sabato 20 ottobre 

Conservatorio Claudio Monteverdi, Auditorium Arturo Benedetti Michelangeli

ore 15:00

Assemblea annuale dei soci della SIdM 

ore 17:30

Presentazione delle novità editoriali della SIdM

- Girolamo Frescobaldi, Opere manoscritte per tastiera, autentiche e di dubbia attribuzione, a cura di Etienne Darbellay e Costance Frei (Opere complete XIII), Milano, ESZ

- Saverio Mercadante, Sinfonia in do minore, edizione critica a cura di Mario Carbotta (Concerti e sinfonie I), Milano, ESZ

- Dizionario degli editori musicali italiani: dalle origini alla metà del Settecento, a cura di Biancamaria Antolini, Pisa, ETS

- Il pianoforte, a cura di Ala Botti Caselli, Torino, EdT

coordina Francesco Passadore

 

Domenica 21 ottobre, ore 9:30 

Kolping / Sala Josef, VII sessione – presiede Marco Mangani 

  • Irene Pasqua, La ghironda nell’arte dal XIII al XVII secolo: ricerca del numero aureo, delle simmetrie e della divina proporzione in relazione ai modelli di Memling, Bosch, Virdung, Agricola, Praetorius, Marsenne e Kircher. Abstract.
  • Francesco Rocco Rossi, Modulorum (super)inventiones: tracce di canto super librum in un tricinium in Tr. 87. Abstract.
  • Licia Mari, La Missa Angelorum di Paolo Isnardi: un «alternatim speciale» per le esequie del duca Guglielmo Gonzaga? Abstract.

pausa caffè 

  • Paolo Cavallo, Il mottetto sacro per poche voci e strumenti nel Piemonte sabaudo nell’età di Antonio Vivaldi (1690-1730). Abstract.
  • Luciano Rossi, «Il Vespro Pontificale Concertato tra Sette e Ottocento». Riflessioni e ricostruzione di una magnificente tradizione liturgico-musicale attraverso composizioni e autori esemplari e inediti. Abstract.

 

Kolping / Hörsaal2, VIII sessione – presiede Teresa Maria Gialdroni 

  • Riccardo Graciotti, Per un profilo dell’attività musicale nei comuni della Marca centrale fra Quattro e Cinquecento: indagine statistica sulla circolazione dei suonatori e delle pratiche musicali in un territorio. Abstract.
  • Valentina Panzanaro, Scrivere musica strumentale ‘alla francese’ nella Roma seicentesca. Abstract.
  • Giovanni Bianco – Saverio Santoni, Edizione critica delle Cantate a voce sola da camera di Paolo Benedetto Bellinzani. Abstract.

pausa caffè 

  • Giacomo Sciommeri, Alcune considerazioni su Pietro Terziani (1763-1831), «uno de’ più celebri contrappuntisti de’ nostri giorni». Abstract.
  • Serena D’ambrosioTleycantimo – A Te cantiamo. Una finestra sulla musica mesoamericana tra i secoli XVI e XVII. Abstract.

 

Comitato convegni SIdM: Antonio Caroccia (responsabile), Paola Besutti, Teresa Maria Gialdroni, Paologiovanni Maione, Francesca Seller, Licia Sirch, Agostino Ziino

 


 

Abstract 

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Maria Adele Ambrosio

Radio Bolzano. Storia, ricezione e programmazione musicale tra il 1928 e il 1943

Il contributo, che si contestualizza nei tre lustri che vanno dal 1928 al 1943, ha per oggetto l’analisi dei dati relativi alla nascita e ai primi sviluppi della stazione radiofonica di Bolzano, una delle stazioni trasmittenti che andarono a costituire in quegli anni l’ossatura del neonato servizio radiofonico italiano. Tra esse, tutte impiantate dal 1924 al 1932, quella di Bolzano è stata in ordine cronologico la quarta, dopo Roma, Milano e Napoli, seguita da Genova, Torino, Palermo, Trieste, Bari, Firenze e Bologna. Una stazione, quella di Bolzano, dalle dimensioni contenute e dalla bassa potenza iniziale che, tuttavia, è voluta fortemente dai vertici governativi in quanto, per la sua collocazione geografica, riveste una notevole importanza nell’ambito della politica d’italianizzazione perseguita dal Regime, politica che nello specifico si appunta sui territori dell’Alto Adige. Il particolare interesse per gli studi musicologici è dettato dall’evenienza che anche per Radio Bolzano, come per le altre emittenti già nate, nei primi anni la struttura portante della programmazione radiofonica è rappresentata da musica di vario genere, dalla lirica all’operetta, dalla musica sinfonica a quella sacra, dalla leggera al jazz, per finire con le trasmissioni musicali tematiche dedicate a un genere, a un compositore o a un interprete, con proposte di ascolto che rispondono nelle loro linee essenziali ai gusti della comunità e dell’epoca di riferimento, cosicché la ricostruzione della programmazione rappresenta lo specchio della società in cui si contestualizza.

Il contenuto principale della relazione consiste nella ricostruzione dell’attività musicale svolta da Radio Bolzano dai suoi esordi nel luglio del 1928 fino al settembre del 1943, quando la stazione radiofonica passa sotto il diretto controllo tedesco in seguito all’invasione dell’Italia. Considerando che alla stazione radiofonica di Bolzano afferisce un’orchestra interna all’ente (EIAR) e musicisti di spessore che alcune volte si identificano con i docenti del locale istituto di studi musicali (Civico Liceo Musicale “G. Rossini”, oggi Conservatorio “Claudio Monteverdi”), tra gli obiettivi di ricerca rientra indirettamente anche quello della ricostruzione dell’intero tessuto musicale cittadino.

Per quanto la storia della radio sia stata ampiamente battuta negli ultimi anni nel panorama degli studi sociologici e per quanto ormai sia stato largamente messo in luce in diversi studi, anche musicologici, la notevole funzione culturale svolta dalla radio fin dal suo esordio avvenuto nel 1924 con le prime programmazioni di Radio Roma, non è ancora stato affrontato il tema della ricostruzione della storia musicale per ogni singola stazione radiofonica, non essendovi contributi organici su questo obiettivo di ricerca. Tale è l’apporto personale che s’intende offrire con questo contributo.

 


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Claudio Bacciagaluppi – Giulia Giovani

«Creating the neapolitan canon»: un bilancio a chiusura del progetto

Il progetto Creating the Neapolitan Canon. Music and music theory between Paris and Naples in the early nineteenth century è stato avviato nel dicembre del 2015 grazie a un finanziamento del Fondo Nazionale Svizzero. A un mese dalla sua chiusura ufficiale prevista per novembre 2018, i relatori presentano i risultati dell’indagine condotta negli archivi e nelle biblioteche musicali di Napoli e Parigi, finalizzata allo studio delle relazioni (anche diplomatiche) tra i due centri e a quello dell’influenza che il modello conservatoriale napoletano e la didattica ivi praticata hanno esercitato sul Conservatoire negli anni della sua fondazione.

Il progetto, ospitato dall’Hochschule der Künste di Berna, è stato portato avanti tramite un’analisi dettagliata degli inventari storici napoletani e parigini e dei documenti sui rapporti artistici e diplomatici tra i due centri tra Sette e Ottocento, e sullo studio dei metodi didattici prodotti in Francia ad uso del Conservatoire. La relazione darà l’occasione di mettere a parte la comunità scientifica di un cospicuo numero di fonti inedite, utili allo studio delle relazioni musicali tra le due città succitate in un’epoca particolarmente significativa per la costruzione di un modello didattico che influenzerà profondamente l’istituzione di altri conservatori europei. Durante la presentazione saranno inoltre illustrati gli inventari storici delle biblioteche di Napoli e Parigi, rivelatisi fondamentali per la ricostruzione. Gli inventari napoletani saranno prossimamente messi a disposizione degli studiosi tramite pubblicazione online.

 


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Giovanna Barbati – Guido Olivieri

Un manoscritto inedito di Antonio Guida per violoncello: un esempio di didattica napoletana del Settecento

Il manoscritto di Sonate per violoncello, conservato presso la Jean Gray Hargrove Library dell’Università di Berkeley, contiene in realtà un metodo completo per violoncello, risalente probabilmente alla fine del Settecento. Si tratta di un volume di 26 pagine, che include brevi minuetti e gavotte, ma principalmente esercizi per violoncello solo, senza testi esplicativi, che attraversano tutti i livelli di un percorso didattico sistematico, dalla prima posizione al capotasto.

Il manoscritto, attribuito a Antonio Guida, violoncellista napoletano che fu anche insegnante nel Conservatorio di Sant’Onofrio a Capuana nell’ultimo quarto del Settecento, conferma che in ambito napoletano anche per il violoncello la didattica fosse basata sulla regola dell’ottava, come già dimostrato da numerosi studi sulla didattica del partimento (‘The art of partimento’ e ‘La scala come modello di composizione’ di G. Sanguinetti e ‘Counterpoint and partimento’ di P. Van Tour). Si ipotizza così che il fine principale dell’insegnamento fosse di fornire moduli e schemi che gli allievi avrebbero poi dovuto applicare nei più diversi contesti in totale autonomia. Il manoscritto potrebbe inoltre confermare l’ipotesi di un metodo didattico di presentazione degli elementi tecnici all’interno di contesti musicalmente significanti, tramite l’esemplificazione di ogni nuovo elemento in piccoli brani musicali.

Le altre opere didattiche italiane per violoncello del Settecento ad oggi conosciute sono: le ‘Sonate’ di N. Sanguinazzo (1700-1720), i ‘Principii’ (1720) e le ‘Sonate’ (prima metà del XVIII Sec.) di F. P. Supriani, i ‘44 Esercizi per il violoncello’ di A. Caldara (1730), i ‘Principes’ di S. Lanzetti (1770). Il volume di Guida risulta dunque essere ad oggi l’unico metodo italiano per violoncello del Settecento, costituendo una preziosa fonte di informazioni sul metodo didattico e anche sulla prassi esecutiva.

Gli studi già precedentemente avviati sui lavori per violoncello di Supriani, Lanzetti e Caldara, permettono una comparazione tra le fonti, dalla quale si può delineare un metodo pedagogico storico in cui l’improvvisazione, intesa come capacità di adattare ex tempore moduli musicali precedentemente appresi, sia parte integrante sia degli studi che dell’obiettivo formativo. 

 


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Florian Bassani

L’Euterpe ticinese di Chiasso. Particolarità di una casa editrice musicale di confine durante il Risorgimento

Nel dicembre del 1831 l’editore Giovanni Ricordi, tramite un noto trasportatore di Milano, si rivolge alla ditta Soldini di Chiasso, nel Canton Ticino, per informarsi sull’avvenuta consegna di "lastre incise di musica di proibita introduz.ne nel n.ro Stato", precisando di essere a conoscenza "che voi avete de’ sicuri mezzi onde introdurle", per infine chiedere "quale saria la spesa p. darmele franche in casa", restando in attesa di una risposta, "anche p. 1/2 di mia figlia e mio genero Carlo Pozzi di Castello S.t Pietro sopra Mendrisio", cioè il mittente della delicata merce.

Alcuni anni più tardi a Bellinzona, nel maggio 1835, le autorità cantonali approvano la nuova Legge sulla protezione della proprietà letteraria, in cui si decreta che "Le opere stampate all’estero possono essere ristampate da qualunque tipografo cantonale in qualunque tempo, senza che il primo che l’eseguisce possa impedirlo agli altri che vorranno far dopo di lui la stessa ristampa." L’intenzione dell’emendamento è quella di emanciparsi dall’importazione di materiali scolastici dal Regno Lombardo-Veneto, per produrre, mediante ristampa, i ‘libri istruttivi’ a prezzi più modici sul proprio territorio. A tal fine si limita il concetto della contraffazione esclusivamente alla "pirateria da parte di uno stampatore operante nel cantone a danno di un’opera già edita in Ticino", mentre si introduce "il termine più piano di ristampa per designare il plagio di opere già edite all’estero." (Mena, Stamperie ai margini d’Italia, 2003, p. 296s).

Se il Cantone, prima della legge, si era prestato come terra sicura per (fra l’altro) la produzione di "lastre incise di musica di proibita introduz.ne" nel Lombardo-Veneto, ora il Ticino si trasforma tacitamente in un attraente campo d’azione per i ‘big’ dell’editoria musicale milanese. Soprattutto Ricordi e Lucca, tramite succursali più o meno informali, trovano qui le condizioni perfettamente legali per appropriarsi di prodotti della concorrenza, vicina e lontana, per prontamente assumere tali spartiti nel proprio catalogo quali creazioni ‘di fondo estero’.

La conferenza si focalizza su una calcografia di immediato confine che firmava i suoi prodotti "Chiasso Dalla Stamperia di musica L’Euterpe Ticinese". Alla base di nuove ricerche si discuterà l’evoluzione sia delle sue attività che della sua produzione nei ben tre decenni di esistenza.

 


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Chiara Bertoglio

Martucci interprete bachiano: le trascrizioni per pianoforte e la divulgazione

Se le trascrizioni bachiane di Ferruccio Busoni sono notissime ed almeno qualcuna di esse fa parte del repertorio standard del pianismo internazionale, quelle di Giuseppe Martucci non godono di pari fortuna ma meriterebbero di essere riscoperte. In modi diversi ma complementari, Martucci e Busoni furono tra i principali protagonisti della divulgazione della musica di Bach nelle sale da concerto e nella didattica italiana ed internazionale. Busoni fu interprete di Bach soprattutto al pianoforte ed alle tastiere, mentre Martucci inserì diverse composizioni bachiane prevalentemente nei concerti orchestrali da lui diretti; molte delle trascrizioni bachiane di Busoni rimandano ad originali organistici, mentre le più importanti fra quelle di Martucci si rifanno a composizioni orchestrali (spesso coincidenti con quelle prescelte dal Martucci direttore), e segnatamente alle Suites per orchestra (Ouvertures).

Dal punto di vista della tecnica pianistica, vi sono diversi punti di contatto fra le più complesse trascrizioni busoniane e quelle martucciane, in quanto entrambi i musicisti, talora, puntano ad un virtuosismo trascendentale che rispecchi, a livello esecutivo, la complessità di pensiero ed architettura degli originali bachiani. Tuttavia, confrontando le trascrizioni di Martucci con quelle di altri compositori che hanno affrontato i medesimi originali in epoca simile, balza all’occhio l’unicità della scrittura martucciana, nella sua adozione di sonorità titaniche, di difficoltà tecniche molto pronunciate, di un tessuto contrappuntistico fittissimo che non rinuncia a nessun dettaglio dell’originale orchestrale. Spicca, inoltre, la “solennità” di alcuni brani, nei quali la combinazione di imponenti raddoppi del basso e tempi insolitamente lenti persino per l’epoca produce un risultato davvero impressionante.

In un’Italia che stava scoprendo la bellezza della musica di Bach in sala da concerto, l’impegno di Martucci come direttore e trascrittore fu davvero pionieristico: la sistematica inclusione di composizioni bachiane, prevalentemente strumentali, nei suoi programmi, fu senz’altro un fattore determinante nell’introdurre Bach nel repertorio concertistico. Studiando l’estetica interpretativa che traspare dalle sue trascrizioni per pianoforte, perciò, possiamo avere una preziosa testimonianza di come si presentavano le Suites per orchestra eseguite davanti ad un pubblico che ne aveva limitate esperienze d’ascolto pregresse. La divulgazione bachiana di Martucci aveva perciò una forte dimensione didattica, legata ai suoi incarichi accademici ed al suo approccio culturale di popolarizzazione del repertorio strumentale; la creazione delle esperienze estetiche e del gusto del pubblico nei confronti della musica di Bach passò anche attraverso la mediazione della personalissima interpretazione di Martucci, di cui le trascrizioni ci offrono una preziosa testimonianza; il pianoforte, in questi brani, si fa davvero tramite di interpretazione, di pedagogia e di documentazione storica.

 


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Giovanni Bianco – Saverio Santoni

Edizione critica delle Cantate a voce sola da camera di Paolo Benedetto Bellinzani

Attivo nella prima metà del Settecento nei territori di confine dello Stato Pontificio, P. B. Bellinzani fu un compositore prolifico – alcune delle sue opere ebbero grande diffusione e per lunghi anni fecero parte dei repertori delle più celebri cappelle musicali del tempo –, autore raffinato, manifestazione autentica della produzione liturgica di derivazione romana.

Uomo del suo tempo, attento e sensibile osservatore, critico ingegnoso e accorto, fedele alla tradizione da una parte, dall’altra con lo sguardo volto al presente.

Autore di musica sacra, in maggior misura, e profana, Bellinzani piega la propria arte con mano delicata e risoluta: dallo stile osservato a quello corelliano e vivaldiano, all’assunzione di procedimenti compositivi operistici che arricchiscono la messa avvicinandola al genere dell’oratorio, agli stilemi riconducibili al gusto galante, alla cantabilità morbida e moderatamente ornamentata di alcuni duetti e madrigali.

Rinvenuto in territorio francese, il manoscritto delle Cantate a voce sola da camera rappresenta un unicum nella produzione del compositore: si tratta del solo autografo che ritrae delle composizioni di genere profano, una raccolta di dodici cantate – probabilmente commissionata – che sopravvivono nella sola fonte parigina e che non fu mai data alle stampe.

Questo prezioso documento ci consente di gettare nuova luce sulla figura di Bellinzani, autore che sembra sempre sorprenderci per eleganza e accuratezza, e che anche in questa sede si dirama in una scrittura consapevole e armoniosa, quasi a «non voler confondere con altro intreccio la forza del pensiero, e della consonanza». 

 


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Tommasina Boccia – Marina Marino

La Lucia di Lammermoor di Donizetti nelle fonti dell’archivio storico del Conservatorio di musica “San Pietro a Majella”

Nell’ambito della politica di valorizzazione delle fonti dell’Archivio storico del Conservatorio di musica “San Pietro a Majella” di Napoli sono state per il 2018 programmate una serie di collaborazioni con studiosi, istituzioni e centri di ricerca, volte a far conoscere le innumerevoli chiavi di lettura offerte dal prezioso ‘scrigno della memoria’ del Conservatorio napoletano.

Le due studiose, Tommasina Boccia referente dell’archivio storico del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli e Marina Marino storica della musica, hanno intrapreso una ricerca a quattro mani inizialmente centrata sulla ricostruzione della contraffazione delle prime rappresentazioni napoletane della Lucia di Lamermoor di Gaetano Donizetti. Alla luce della documentazione emersa e vagliata, lo studio è stato presto ampliato a un più generale approfondimento dell’obbligo prescritto agli impresari dei teatri napoletani di depositare gli spartiti presso l’archivio musicale del conservatorio. Ci si è concentrati soprattutto sul periodo preunitario, con qualche accenno a documenti della seconda metà dell’Ottocento.

 


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Giampiero Buzelli

Clavicembali e strumenti a tastiera a Genova tra XVII e XVIII secolo

La fabbricazione ed il collezionismo di strumenti a tastiera nelle città italiane sedi di una rilevante produzione cembalaria da circa un quarantennio sono stati oggetto di studi che hanno nella ricerca d’archivio il loro asse portante. Per quanto riguarda Genova, che sotto questo profilo non costituisce un centro paragonabile a Napoli, Roma, Venezia, o altre città del nord Italia, si riscontra facilmente che accanto ad una ben documentata storia organaria e ad una liutaria che si va progressivamente arricchendo di dati, quasi inesistenti sono i riferimenti agli altri strumenti a tastiera. Questi ultimi si limitano a registrare alcuni importanti strumenti di provenienza genovese presenti in vari musei, notizie frammentarie sull’attività di alcuni cembalari, oltre alla più antica immagine italiana del clavicembalo, raffigurata nei cori delle cattedrali di Genova e di Savona. Di qui lo stimolo a considerare la storia musicale genovese sotto questa particolare angolazione, dal punto di vista della ricerca documentaria, ma anche organologica ed iconografica, con una valenza ulteriore in direzione della sociologia musicale e della storia del collezionismo più in generale. A tale proposito, occorre ricordare che il contesto storico e istituzionale di Genova pone alla ricerca un problema particolare: in assenza di una dinastia ai vertici dello stato, il corrispettivo del fasto che emerge dagli inventari delle corti è stato offerto, in forma parcellizzata ed in parte disorganica, da quelli privati dispersi nello sterminato fondo notarile, oltre che degli archivi familiari e, per il XVIII secolo, anche dalle testimonianze sul mercato degli strumenti musicali contenute nei periodici. Obiettivo della ricerca è quello di documentare la presenza di clavicembali, spinette, claviorgani, organi da camera, fino all’avvento del pianoforte così come le inedite vicende biografiche dei fabbricanti attivi nella città, ma anche prendere in considerazione il background che tali presenze e vicende ha determinato. Un gruppo significativo di genovesi, particolarmente dal secolo che da loro prende il nome, e fino alla caduta della repubblica aristocratica, dimostra un tipo di propensione culturale che non contraddice la loro tradizionale natura mercantile: la stessa aristocrazia produce al suo interno figure di pensatori che cercano di dettare le regole di comportamento della classe dirigente, assegnando talora anche un ruolo all’educazione musicale. Naturale pendant della raggiunta egemonia economica sul continente, il dotarsi di beni di prestigio, a buon diritto arriva a comprendere accanto alle celebrate raccolte d’arte alcuni importanti strumenti musicali, insieme a decine di altri forse di minore importanza, che costituiscono tuttavia il tessuto connettivo di una vita musicale di insospettata ricchezza.

 


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Attilio Cantore

«Contemporanei si nasce, e non lo si diventa!»: Mario Castelnuovo-Tedesco e il pianoforte

Ogni composizione musicale serba in sé un nucleo utopico che è sempre in eccesso rispetto al presente e attende dal futuro la propria redenzione: ciò è quanto mai vero per la produzione pianistica di Mario Castelnuovo-Tedesco.

Ebreo sefardita nato nel 1895 in una società cattolica, Castelnuovo-Tedesco, di cui quest’anno ricorre il 50° anniversario della morte, fu costretto a fuggire da Firenze a causa delle leggi razziali per divenire un cittadino americano assorbito dall’industria cinematografica.

Maturando la propria sensibilità al calore delle ondivaghe atmosfere armoniche degli “impressionisti francesi” e del rigore contrappuntistico di Ildebrando Pizzetti, divenne maestro affettuoso di qualche centinaio di aspiranti compositori (tra cui Henry Mancini, John Williams, Jerry Goldsmith, Herman Stein e André Previn) ed il cortese confidente di tre generazioni di colleghi: dall’«internazionale» Alfredo Casella a Luigi Dallapiccola; da Achille Longo a Darius Milhaud; da Andrés Segovia a Gregor Piatigorsky; da Jascha Heifetz a Nino Rota (per lui «un fratello minore, quasi un figlio adottivo»).

Lo strumento d’elezione di Castelnuovo-Tedesco fu il pianoforte (il primo pionieristico concerto della Società Nazionale di Musica, tenutosi a Roma il 16 marzo 1917, già lo vedeva protagonista nella doppia veste di pianista e compositore), eppure il suo catalogo di opere per pianoforte nel tempo è stato tristemente obliato e ha dovuto attendere a lungo prima di essere riscoperto e valorizzato dal compianto Aldo Ciccolini.

Dato che «all’artista non è concessa probabilmente se non l’efficacia che è frutto delle opere» (Károly Karényi), la presente ricerca intende restituire, per la prima volta, un quadro d’insieme della vasta produzione pianistica del compositore fiorentino, da Cielo di settembre op. 1 (1910) alla Sonatina zoologica op. 187 (1960). Nell’arco di cinquant’anni, vengono analizzati punti di contatto e cortocircuiti rispetto ai modelli, offrendo una chiave di lettura della poetica musicale di Castelnuovo-Tedesco; dunque, di cosa intendesse dire quando, in beatitudine novecentista, ripeteva ai suoi allievi: «Contemporanei si nasce, e non lo si diventa!».

 


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Sandro Cappelletto

Dalle sonate di Domenico Scarlatti allo zum-pa-pa. Nuove ipotesi sull’origine della lunga catastrofe della musica strumentale italiana

Il primato esecutivo, produttivo, di ricezione del melodramma è considerato il primo responsabile della lunga scomparsa della musica strumentale, cameristica e sinfonica, italiana dal mainstream della civiltà musicale europea.

Una perdita di profondità compositiva che possiamo far iniziare negli ultimi decenni del Settecento e che prosegue, aggravandosi, lungo l’intero secolo successivo.

Ma il termine ad quem interessa, qui, meno che approfondire le più complesse ragioni dell’origine del declino, mentre la tesi, a lungo sostenuta da alcuni studiosi italiani, di un influsso comunque fertile della nostra produzione strumentale sull’origine del classicismo appare soprattutto consolatoria. Si tratta in realtà di una frattura profonda, che ha inciso sul carattere stesso del farsi della nostra nazione.

Ed è una frattura intellettuale. La cultura italiana non ha conosciuto alcuni movimenti di pensiero fondanti una laica modernità europea: né l’assoluto morale kantiano, né il pensiero dialettico formalizzato in particolare da Hegel (il cui ‘dialogo’ con la struttura della forma-sonata è stato intenso), né l’immagine del sublime associata alla musica, che contraddistingue le riflessioni di Arthur Schopenhauer.

Il legame tra musica e cultura, spesso minimizzato dalle ricostruzioni storiografiche, si rivela in realtà determinante per comprendere le conseguenze di una scissione così penalizzante per il nostro paese.

 


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Paolo Cavallo

Il mottetto sacro per poche voci e strumenti nel Piemonte sabaudo nell’età di Antonio Vivaldi (1690-1730)

Come ormai noto da anni, il fondo Foà-Giordano della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino custodisce le opere vocali e strumentali di Antonio Vivaldi, tra cui anche parte dei suoi superstiti dodici mottetti sacri per voce sola e strumenti (due dei quali incompleti).[1] Recenti ricerche archivistiche compiute in altri fondi musicali piemontesi hanno permesso di riportare alla luce una serie di opere mottettistiche per una, due, tre voci e strumenti risalenti allo stesso periodo storico in cui Vivaldi fu attivo a Venezia (1690-1730), le quali appartengono a mani di maestri di cappella che lavorarono per le principali istituzioni musicali dello Stato sabaudo: nello specifico, Francesco Fasoli (musicista originario di Zelo Buon Persico presso Lodi che esercitò tra il 1688 e il 1712 il mandato di maestro di cappella della cattedrale di Torino[2]), Francesco Michele Montalto (canonico minore beneficiato presso la basilica di Sant’Eusebio di Vercelli e quindi successore di Fasoli alla testa della cappella musicale del duomo di Torino[3]) e Giovanni Ambrogio Bissone (maestro di cappella del duomo di Vercelli tra 1687 e 1726).

Oltre a dettagliare gli scambi repertoriali intrattenuti dalle cappelle musicali di Torino e Vercelli con altre esterne ad esse (ad esempio quella della Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo), scopo del presente intervento sarà fornire una comparazione a livello di struttura interna, di scelte testuali e di testura dei mottetti sacri per poche voci, archi e continuo di questi tre autori, condotta principalmente sulla base delle rispettive somiglianze e difformità (l’assenza dei recitativi in Fasoli, l’uso di arie con da capo in Fasoli e Bissone, l’interazione tra voce e tromba in Fasoli e Montalto). L’analisi di tali opere – colme, come sostiene Michael Talbot, di “great imagination and a genuine feeling for the voice” anche se gravate dalla routine creativa[4] - permetterà una migliore contestualizzazione storica e stilistica di queste opere manoscritte, finora mai studiate dalla musicologia, e l’inserimento delle loro peculiarità all’interno del mare magnum della creazione mottettistica italiana di tardo Seicento e primo Settecento.

[1] Antonio Vivaldi, In turbato mare irato, edizione critica a cura di Michael Talbot, Milano-Venezia, Ricordi-Istituto Italiano Antonio Vivaldi, 1989, p. 41. Il catalogo dei fondi musicali della Biblioteca Nazionale di Torino è stato edito da Isabella Data, Annarita Colturato, Raccolta Mauro Foà – Raccolta Renzo Giordano, introduzione di Alberto Basso (Cataloghi dei Fondi Musicali Italiani, 7), Roma, Torre d’Orfeo, 1987.

[2] Per un profilo di Francesco Fasoli cfr. Paolo Cavallo, Le musiche per doppio coro di Francesco Fasoli, maestro di cappella della cattedrale di Torino tra 1688 e 1712, in Subsidia musicologica. Studi in onore di Alberto Basso per il suo 85° compleanno, a cura di Cristina Santarelli, Lucca, Lim, 2017, pp. 49-71.

[3] Alberto Basso, La Dora e l’Eridano festeggianti. Le musiche e gli spettacoli nella Torino di Antico Regime, Lucca, Lim, 2016, pp. 52-53, 992-1003.

[4] Michael Talbot, The sacred vocal music of Antonio Vivaldi, Firenze, Olschki, 1995, pp. 286-300: 299-300.

 


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Serena D’ambrosio

TleycantimoA Te cantiamo. Una finestra sulla musica mesoamericana tra i secoli XVI e XVII

La presente relazione ha il compito di mettere in luce il valore culturale della musica in area mesoamericana tra il XVI ed il XVII secolo focalizzando in particolar modo l’attenzione sulla letteratura e sulla didattica della polifonia sacre non tralasciando l’importanza del ruolo della musica nella colonizzazione della Nuova Spagna.

Il titolo reca la parola nahuatl “Tleycantimo”, ossia “a Te cantiamo”, titolo di uno dei villancicos così detti vernacolari – in lingua indigena -, a sfondo sacro, del compositore portoghese Gaspar Fernandes, maestro di cappella della cattedrale della Puebla de los Angeles (Messico) nella prima decade del Seicento; la scelta è volta ad evidenziare l’effettiva produzione locale di musica sacra nella lingua dei nativi, la familiarizzazione con essa da parte dei musici d’oltreoceano durante il periodo coloniale, ma anche l’asservimento della musica, in particolar modo sacra, come strumento di conversione e dunque di conquista.

Il percorso di ricerca preliminare si rifà soprattutto agli studi già condotti sull’argomento da Gabriel Saldivar, Cervantes de Salazar e da Robert Stevenson nel corso del Novecento, sulle cronache dell’epoca e sui codici dell’area interessata. Tenendo conto delle presenti fonti l’intento è stato non solo quello di recupero delle teorie già delineate in merito all’argomento, riformulazione delle informazioni in maniera organica, ma anche, successivamente, di delineazione di una personale chiave di lettura sul ruolo della musica in un periodo così affascinante e in un’area a lungo lasciata all’oblio.

L’attività di approfondimento ancora in fieri ha rilevato, infatti, la quasi totale assenza di interesse da parte della ricerca musicologica nazionale col proposito di poter suscitare curiosità e l’avvio, di conseguenza, di più approfondite ricerche. Pertanto il presente lavoro si presenta non solo come un’introduzione all’argomento in sé ma anche come una “finestra” utile di consapevolezza degli elementi fondanti il linguaggio mesoamericano, anche attraverso l’analisi dell’apporto musicale originalissimo dipanatosi da questa specifica area geografica e confluito nella didattica della musica europea, base pregnante per la costruzione di una nuova identità musicale.

La disamina prenderà l’avvio preliminarmente dalla delineazione del contesto che rappresenta il range non solo storico ma anche culturale e antropologico entro il quale si è proceduto per la ricerca musicologica; in seguito ci si concentrerà sulla descrizione dei metodi d’insegnamento dell’improvvisazione polifonica da parte dei padri francescani europei nel Nuovo Mondo; infine sarà condotto uno studio su esempi di polifonia Nahuatl presenti nel Codice Valdés.

 


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Mariacarla De Giorgi

Sophie de Bawr e la sua Histoire de la musique per l’Encyclopedie des Dames: la nascita di una musicologia al femminile nella Francia postrivoluzionaria

La compositrice, pianista e scrittrice Alexandrine Sophie Baronne de Bawr pubblica nel 1823 a Parigi presso l’editore Audot un volume di 279 pagine dal titolo Histoire de la musique, presentando la sua opera come “scritta da una donna per le donne”.  La sua posizione storiografica, risente non solo del dibattito critico francese e della sua particolare attenzione agli “effetti” della musica, ispirandosi espressamente a Choron, a Castil-Blaze e soprattutto a Rousseau, specie nel dibattito tra i sostenitori della musica francese e quelli della musica italiana, ma esprime il suo intento di voler seguire le orme progressiste di Charles Burney e della sua opera A general History of Music. Infatti pur dedicando una trattazione storica, erudita e minuziosa, alla musica antica e a tutte le sue espressioni artistiche, l’autrice si dimostra particolarmente attenta nella sua analisi dello stato attuale della musica europea, esaminandone di volta in volta i diversi contesti culturali. L’opera è una fonte d’informazioni preziose per la musica francese del periodo post-rivoluzionario e riflette molto bene il clima intellettuale della Parigi repubblicana. Molto importante è la sua posizione critica riguardo al ruolo della Rivoluzione francese e di quel processo di evoluzione impresso alla musica strumentale e al teatro. Quest’opera ebbe un immenso successo in Europa e fu presto tradotta in tedesco e in italiano, certamente grazie all’approccio divulgativo della narrazione storico-musicale, come sottolineò la stampa tedesca, ma soprattutto grazie all’impronta fortemente emancipatoria e alla volontà di formare un numero crescente di donne dedite alla musica, desiderose di approfondire il loro sapere storico-musicale e quell’arte che “elles cultivent avec succès”.

 


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Paola De Simone

Il Credulo deluso di Giovanni Paisiello (1774) dal Teatro Nuovo al Real Teatro di Caserta: nuovi dati documentali dal Conto delle spese dell’Archivio Farnesiano

Pur nella molteplicità degli approfondimenti scientifici fin qui compiuti sulle peculiarità stilistiche accanto alle relative premesse e varianti del Credulo deluso, commedia per musica in tre atti composta da Giovanni Paisiello nel 1774 e rappresentata nell’autunno di quell’anno per il Teatro Nuovo di Napoli, quindi riformulata in un solo atto per la Corte di Pietroburgo nel 1783 e ulteriormente rielaborata dall’autore al rientro dalla Russia ancora per Napoli nel 1784, mancano ad oggi nella ricostruzione delle fonti i dettagli relativi alle due rappresentazioni avvenute nel Real Teatro di Caserta dinanzi alle Reali Maestà, rispettivamente in data 24 novembre e 3 dicembre 1774.

Un titolo che, per quanto non considerato di punta nel catalogo paisielliano, rivela soprattutto in tale prima fase di stesura un non trascurabile peso drammaturgico-musicale in quanto specchio originale e strategico per osservarne le metamorfosi e in special modo quel gioco dei contrari per obiettivi multipli andato a evidenziare, partendo dalla goldoniana invenzione del Mondo della luna, le antinomie fra il serio e il comico, gli stili viennese e veneziano a fronte degli esiti di tradizione napoletana ma, anche, gli spunti parodistici rivolti al coevo Orfeo ed Euridice di Gluck, in edizione partenopea, di lì a breve ribaditi dallo stesso Paisiello nel suo Socrate immaginario.

Ebbene, grazie alla restituzione integrale dei dati documentali inediti contenuti nel volume manoscritto del Conto delle spese per la rappresentaz[io]ne dell’Opera in musica del Teatro Nuovo intitolata il Credulo Deluso due volte seguita nel R[ea]l Teatro di Caserta avanti le R[ea]li Presenze, datato 1774 e conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli nel fondo Farnesiano, è possibile porre in tale indagine a complemento delle già note modalità organizzative proprie delle riprese per le assi del Teatro di Caserta, qui con indicazione specifica delle relative responsabilità e degli interi menù di cibi somministrati ai Virtuosi, quei dettagli che emergono unicamente da tale fonte data l’assenza o comunque la mancata identificazione di libretto e partitura relativi alla duplice ripresa avvenuta nel citato Sito Reale. Vale a dire, in primis, l’effettiva formazione del cast che, infatti, presenta una diversa interprete per il personaggio emblematico di Flaminia rispetto a quanto riportato dall’elenco dei personaggi indicati sul libretto per il Teatro Nuovo custodito presso la Biblioteca del Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli. Libretto che tra l’altro, allo stato attuale degli studi, risulta ancora di mano ignota per quanto, in attesa di ulteriori verifiche di banco in corso, con buona probabilità attribuibile nelle sostanziali modifiche dell’originale goldoniano a Giambattista Lorenzi più che, come ipotizzato, allo stesso compositore. Inoltre, il Conto delle spese in esame, ha consentito di individuare il responsabile al cembalo, di ricostruire l’organico strumentale e di attestare, al contempo, la presenza di ballerini e comparse.

 


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Marko Deisinger

«Tutto il Drama è infelice». An account of the Venetian premiere of Giovanni Legrenzi’s opera Eteocle e Polinice (1675) archived in Vienna

In 1675, the Venetian printing house Nicolini published the libretto of the opera Eteocle e Polinice on the occasion of its premiere in Teatro Vendramin. The libretto only names two individuals involved in the production: the set designer Giovanni Battista Lambranzi and the composer Giovanni Legrenzi, whose composition remains preserved. To date, additional supporting original sources have been sparse.

Now, a contemporary anonymous account has been found in the Harrach family archive, which allows the history of the opera production to be reconstructed in significantly greater detail. The seven-page manuscript contains instructive details about the opera’s genesis and provides lively insights into stage production events. It describes the theatre director’s artistic and commercial ambitions and comments on individual singers’ careers and stage presence. The eyewitness also reports on the composer’s and the librettist’s performance, comparing Lambranzi’s designs with those of the imperial set designer Lodovico Burnacini, and interprets the audience’s reception.

In my paper, I would like to explain the relevance of the insights gained from this account in its historico-cultural context. The account not only provides valuable first-hand insights into contemporary Venetian cultural life, but also underscores the close music-historical relationship between Venice and imperial Vienna. The Habsburg rulers during the Baroque period kept close tabs on developments in the Venetian musical and theatre scene and regularly attracted renowned artists from the Venetian opera world to their court. This account was likely written by Domenico Federici, the Emperor’s ambassador to Venice and former Viennese court librettist, who also regularly communicated with the imperial diplomat Ferdinand Bonaventura Harrach.

 


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Antonio Dell’Olio

Giuseppe Tricarico da Gallipoli (1623-1697) tra Roma e Vienna: il caso dell’oratorio musicale Adamo ed Eva

Allo stato attuale della ricerca manca uno studio a tutto tondo sulla figura artistica di Giuseppe Tricarico, il più celebre tra i musicisti dell’omonima famiglia gallipolina.

Diversamente da altri familiari che ricoprirono le maggiori cariche musicali nella città pugliese di origine, Giuseppe operò in ambienti di grande vivacità culturale: Roma, Ferrara e, a partire dal 1657, Vienna, alla guida della prestigiosa cappella dell’imperatrice Eleonora II Gonzaga, consorte di Ferdinando III d’Asburgo. Risale al 1662, ultimo anno di permanenza nella città imperiale, l’esecuzione dell’oratorio Adamo ed Eva, oggetto della presente indagine. Della composizione si conserva una copia manoscritta nell’Archivio Musicale dei Girolamini a Napoli. Una prima sommaria indagine sulla concordanza tra l’incipit letterario della partitura e gli indici degli incipit di libretti di oratori romani, da parte di studiosi d’oltralpe, ha confermato la provenienza romana del libretto musicato da Tricarico.

La rilevante presenza di letterati e musicisti italiani alla corte di Vienna è un dato già noto alla ricerca storiografica, tanto che Leopold Kantner considerava la corte cesarea «romana lato sensu». Negli anni Sessanta l’imperatrice Eleonora aveva promosso l’esecuzione di alcuni oratori musicali importati da Roma, i cui libretti furono stampati a Vienna. La notizia è contenuta in una lettera, datata 2 dicembre 1661, spedita dall’imperatrice al fratello, il duca di Mantova, in cui si afferma: «Questo adevento mi vado pasando il tempo in prediche et ó introduto certe oratorie in musica venutomi da Roma et le faccio fare una volta alla setimana con un sermone quasi academico sopra l’istesso suogetto che riese asai gustoso» (H. Seifert, Die Oper am Wiener, p. 670). L’ostensione dei temi sacri, promossa dall’establishment imperiale, concorse alla costruzione di un vasto repertorio della cappella viennese, favorendo una non trascurabile importazione di oratorio dall’Italia.

La prospettiva ermeneutica in modo alcuno può privarsi del rapporto con le fonti in esame: pertanto, l’indagine condotta sulla partitura e sul libretto dell’oratorio in esame mirerà a cogliere nel percorso metodologico il rapporto testo-musica a livello sintattico-strutturale, ritmico e semantico-espressivo.

 


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Candida Felici

Max Weber e la musica: considerazioni attorno alla Musiksoziologie

Frutto di una lunga redazione e lasciato incompiuto dal suo autore, lo scritto di Max Weber sulla musica è stato oggetto negli ultimi anni di un rinnovato interesse da parte degli studiosi. Dopo i contributi rilevanti degli anni Novanta – la tesi dottorale di Christoph Braun (Max Webers “Musiksoziologie”, 1992) e la traduzione francese curata da Jean Molino ed Emmanuel Pedler (1998) –, l’edizione critica tedesca apparsa nel 2004 (Webers Gesamtausgabe, I/14, a cura di Christoph Braun e Ludwig Finscher) ha permesso di ripercorrere in modo approfondito genesi, fonti e contesto dell’opera. La Musiksoziologie di Weber pone più d’un problema interpretativo, sia per l’ampiezza e il tecnicismo dei contenuti, sia per la complessità dello stile argomentativo, sia per il fatto che l’autore non ha potuto dare all’opera una forma compiuta. Infatti il testo ci è giunto attraverso un dattiloscritto denso di integrazioni a mano, sul quale si basò la prima edizione del 1921 curata da Theodor Kroyer con il titolo Die rationalen und soziologischen Grundlagen der Musik; tale dattiloscritto, purtroppo andato perduto durante la seconda guerra mondiale, non recava alcun titolo e il testo vi compariva senza alcuna divisione in sezioni, capitoli o paragrafi; ciò ha certamente influito negativamente sulla sua disseminazione. 

In questa relazione propongo una riflessione sulle caratteristiche principali dell’opera, alla luce dalla nuova traduzione da me curata per i tipi del Saggiatore (2017): (1) la dimensione interdisciplinare che spazia dalla musicologia all’etnomusicologia, dall’armonia alla psicoacustica; (2) la dimensione universalistica con continui riferimenti a culture musicali cronologicamente e geograficamente distanti; (3) il comparativismo come strumento euristico; (4) l’approccio empirico basato sugli studi e le registrazioni di musiche di tradizione orale per puntellare le ipotesi messe in campo.

La Sociologia della musica di Weber tenta di rispondere all’interrogativo che sottostà a tutta la sua riflessione sociologica: il perché della particolare ratio della cultura occidentale moderna. In particolare, nello scritto weberiano sulla musica la domanda si configura nel modo seguente: perché proprio in Occidente è nata la musica polifonica basata sull’armonia di accordi («unsere akkordharmonische Musik»)? La risposta non è immediata, si configura al contrario come un graduale approssimarsi a un insieme di concause: la determinazione matematica degli intervalli, l’affermarsi dell’intervallo di quinta a scapito della quarta che era stata al centro dei sistemi greco e arabo, la polifonia, la notazione musicale (che sola ha garantito la nascita della figura del compositore, centrale nella cultura musicale occidentale), un maggiore bisogno espressivo, il temperamento equabile, il perfezionamento organologico degli strumenti ad arco e a tastiera.

Di derivazione hegeliana è la concezione della storia della cultura come tensione («Spannung») dialettica tra istanze diverse, spesso contrapposte, la teoria e la prassi, la melodia e l’armonia, gli intervalli concepiti in modo armonico (matematico) o in base alle distanze. L’approccio di Weber è comunque fortemente empirico e le sue deduzioni sono presentate sempre con grande prudenza (è probabile o possibile, ma non certo, che le cose siano spiegabili in un dato modo) e sostenute da dati e documenti anche sonori. Dunque, pur nella complessità e talvolta oscurità del testo, che rimane una splendida opera incompiuta, con esso Weber ci offre un esempio di grande rigore argomentativo e metodologico da una prospettiva interdisciplinare.

 


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Anna Ficarella

The role of the ‘organized sound’ in Mahler’s creative process

This paper aims at highlighting a crucial point of Gustav Mahler’s creative process: the continuous revision process in his symphonies covering the treatment of the orchestration and the ‘secondary sonic dimensions’ (i.e. the so-called secondary parameters such as timbre, dynamics, agogics, instrumental effects and all related paratextual elements such as performing instructions and expressive markings), even after the works had been published.

Although it is a well-known issue, it seems to have not been explored enough in its implications in Mahlerian studies. The sometimes laborious interplay between the compositional idea and its effective implementation in orchestral and performing terms makes the enquiry on the Mahlerian process of score revising particularly interesting. Since it is an integral part of the Mahlerian creative modus operandi, the steady improvement of the work’s sonic features (that is to say, of the orchestral treatment and performing instructions, through the use of an ever more precise notation) could offer indications about the value of the materiality of sound in the symphonic writing, as well as the ‘performative’ aspect of Mahlerian compositions and the performing attitude of Mahler himself. In musicological studies, Mahler’s compositional process concerning orchestration and timbre treatment, with its continuous phases of score revisions of texture and the ‘secondary sonic dimensions’ has, so far, received a rather limited interest. It has been mostly a corollary – without any sharp focus – of a research usually oriented towards genetic criticism, critical editions or historically informed performance. It is no coincidence that interesting observations on the peculiarities of the notation in Mahler come from studies concerning performing practice and instrument characteristics in Mahler’s time.

What is lacking, however, is a deeper reflection on the possible aesthetic instances that make the dialectic between sonic imagination and musical writing in Mahler so complex. The fact that no specific research line exists on such aspects of the Mahlerian creative process, in which the orchestral sound becomes the undiscussed protagonist, is probably due to the scarcity of musicological studies on the aesthetics of orchestral sound, both of Mahler and of his ‘post-Wagnerians’ contemporaries’. Moreover, the orchestral texture and the secondary parameters have long been considered as elements related to the ephemeral area of sound (Klang) and sonority (Klanglichkeit) and not as ‘structural devices’ (i.e. substantial components of the musical fabric). Indeed, as a bearer of musical meaning, Klang, timbre or ‘sound organization’ (a common term deriving from a definition by Varèse[1]) with all its related parameters is a quite controversial object of study. In Mahler’s case, however, this lapse regarding the sound’s ‚material’ dimension is even more blatant, when one considers the characteristics of his orchestral treatment and his laborious writing processes.

[1] Varèse speaks of ‘organized sound’, cfr. Edgard Varèse and Chou Wen-chung, The Liberation of Sound, «Perspectives of New Music» 5/1 (Autumn - Winter 1966), pp. 11-19: 18.

 


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Gioia Filocamo – M. Luisa Baldassari

Andrea Antico da Roma a Cracovia: testo musicale e contesto sociale della prima intavolatura italiana per tastiera a stampa

Le Frottole intabulate da sonare organi di Andrea Antico (Roma, 1517) raccolgono 26 composizioni frottolistiche intavolate, pubblicate dallo stampatore istriano grazie al privilegio entusiasta concessogli da Papa Leone X. Molto si è già scritto sulla raccolta, che detiene il primato di essere la più antica fonte a stampa non alfabetica per strumento a tastiera, ma nulla sulla ipotetica destinazione del libro, celebre soprattutto per il suo intrigante frontespizio satirico. In un’epoca che segna il trionfo della stampa di frottole, come mai questa raccolta resta l’unica intavolatura frottolistica per tastiera a stampa pervenutaci? Perché lo stampatore contemporaneo Ottaviano Petrucci, che pure aveva ottenuto prima di Antico il medesimo privilegio dal pontefice, lo lasciò scadere senza mai produrre questo tipo di musica a stampa? A chi erano destinati fruizione e mercato di tale musica, e perché Antico fu probabilmente scoraggiato dal tentare la produzione del secondo volume di frottole intavolate per tastiera evidentemente previsto quando licenziò il volume come Libro primo?

Il paper descriverà l’ambiente di verosimile destinazione delle Frottole intabulate da sonare organi di Antico, e si avvarrà di esecuzioni commentate al clavicembalo di vari esempi tratti dalla raccolta edita nel 2016 da M. Luisa Baldassari (Bologna, Ut Orpheus) e poi incisa per l’etichetta Tactus (TC 480101).

 


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Rossella Gaglione

«La musique est un domaine où on n’a pas à être cohérent»: André Suarès maître à penser della Musicologia?

È forse la Musica l’unico ambito in cui si può essere – a ragione – incoerenti? La citazione contenuta nel titolo è una considerazione di Vladimir Jankélévitch in merito alle teorie musicologiche molto spesso contraddittorie che emergono dai testi di André Suarès. La relazione si presenta come il tentativo di dimostrare se, e in che termini, è possibile considerare le tesi di André Suarès sulla Musica, e le analisi compiute sui musicisti, un abbozzo di Estetica della Musica, al di là – o anche attraverso – le incoerenze e le idiosincrasie evidenti. Per far ciò, è necessario compiere una disamina approfondita dei pensieri suarèsiani ripercorrendone i testi di carattere strettamente musicologico: Idées et visions et autres écrits polémiques, philosophiques et critiques contente dei ritratti di Mozart, Beethoven, Wagner, Debussy, Ravel, risalenti agli anni 1897-1923, Wagner (1899), Debussy (1920), Musique et poésie (1927) et Musiciens (1931), nonché Sur la musique, testo che invece contiene gli articoli editi sulla Revue musicale (tra il 1912 e il 1936) raccolti da André Barsacq e altri pubblicati su riviste ormai introvabili. Si tratta di un pensatore instancabile, poeta, scrittore e critico letterario, che non ha mai ricevuto il dovuto riconoscimento, ma soprattutto – e qui verrà dimostrato – di un maître à penser del dominio musicologico. Suarès, pianista eccellente dilettante oltre che teorico della musica, amico di Romain Rolland, è l’autore più sconosciuto della sua generazione, di cui facevano parte personalità del calibro di Gide, Valéry, Proust e Claudel. Nessuno dei suoi testi musicologici è stato tradotto in italiano né è stato preso in considerazione dalla critica musicologica francese: seguirne le linee di pensiero, quindi, sarà da una parte agevole dall’altra molto complesso per la verginità del terreno che bisogna percorrere. Si cercherà di ricostruire l’identità suarèsiana ma soprattutto di costruire un sentiero attraverso le sue idee sui musicisti; ci si soffermerà, poi, sulle sue teorie in merito alla Musica e al canto, e in particolare sulla sua innovativa teoria dell’improvvisazione per dimostrare se – e come – è possibile affidargli un posto nel panorama musicologico internazionale.

 


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Christine Suzanne Getz

Competition, expansion, and liquidation at the Tradate press 1598-1612

When the book vendor Agostino Tradate entered the printing business in 1598, he posed the first significant threat to the Tini family’s stranglehold on the music printing market in early modern Milan. Between 1598 and 1612, Tradate and his heirs produced approximately thirty volumes of polyphonic music in addition to numerous devotional texts. Rorke (1984), Kendrick (1996 and 2002), Bonomelli (2004), and Macy (2011) have discussed the Tradate press’s role in disseminating the spiritual texts and madrigals that supported Federico Borromeo’s religious education programs, but little attention has been given the economic and professional rhythms that enabled Agostino Tradate’s entrance into the business, shaped his production of music prints, and drove his heirs out of the trade in 1612. Using archival documents and extant music prints, this paper examines the circumstances surrounding five crucial moments in the history of the Tradate press: 1) the entry of Agostino Tradate into the music printing business in 1598; 2) the introduction of the organists Serafino Cantone and Giovanni Paolo Cima into Tradate’s catalogue in 1599; 3) the defection of  Orfeo Vecchi, arguably the Tini’s most important client, to Tradate in 1602; 4) the death of Agostino Tradate in 1608 and the passing of the business to his young sons; and 5) the exit of Agostino Tradate’s heirs from the business in 1612. It shows that Agostino Tradate entered the printing business in 1598 just as Francesco Tini’s last heir renounced all worldly goods in favor of a religious vocation, and, further, that he quickly established himself as a formidable competitor by imitating aspects of the Tini production, including layout, organization, and patterns of dedication. It argues that the sale of the shares of Francesco Besozzo, the Tini family’s first partner, to Filippo Lomazzo in August 1602 provided the avenue by which Tradate captured Vecchi’s business. It reveals that Tradate expanded his clientele in the face of competition from the Tini and their partners by cultivating several accomplished, yet relatively untested Milanese composers, arrangers, and editors of sacred music. Finally, it demonstrates that although Agostino Tradate’s heirs attempted to combat their financial difficulties by focusing on certain niche markets in religious books, classical texts, and devotional music, the types of crushing debt that caused the children of Pietro Tini to sell the family shop in 1612 and turn the Tini firm over to Lomazzo also drove the heirs of Tradate out of the printing business. The paper will be presented in Italian.

 


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Riccardo Graciotti

Per un profilo dell’attività musicale nei comuni della Marca centrale fra Quattro e Cinquecento: indagine statistica sulla circolazione dei suonatori e delle pratiche musicali in un territorio

Il progetto di ricerca, articolato in diverse fasi, consiste nella raccolta sistematica e nella rielaborazione delle informazioni ricavate dalle fonti contabili riguardanti gli apparati musicali delle festività patronali (ma non solo) organizzate in venti comuni della antica Marca centrale (corrispondente pressappoco all’attuale provincia di Macerata) per il periodo 1450 - 1530.

Gli studi di questo genere hanno finora privilegiato la dimensione storiografica dell’historia urbium ricostruendo la vita dei gruppi strumentali stabilmente attivi nelle maggiori città italiane dal Medioevo in poi: esemplari sono i lavori di O. Gambassi per il Concerto Palatino di Bologna (1989), di F. D’Accone sulla musica civica a Siena (1997) (altri esempi riguardano le città sedi di signorie e principati come Ferrara, Mantova, Milano, Napoli ecc.; per le Marche sono reperibili studi di varia impostazione per le città di San Ginesio (1992), Ascoli Piceno (1998), Ancona (2010), ecc.). Nel contempo la musicologia europea ha rivolto l’osservazione verso intere aree regionali e nazionali al fine di cogliere aspetti altrimenti esclusi dalle analisi delle singole istituzioni: sono di questo tipo i lavori di K. Polk per la Germania (1992) e il contributo di Gretchen Peters per le città della Francia (2012).

La presente indagine prende in esame un territorio caratterizzato da una fitta rete di piccoli centri non ancora del tutto pacificati nell’alveo del potere pontificio e fortemente in competizione fra loro, ma con un profilo politico, economico e sociale sostanzialmente omogeneo. Nel corso del Quattrocento le festività, patronali o di altro genere, promosse dalle autorità comunali rappresentano la prima e fondamentale espressione dell’identità civica e collettiva, anche se l’avvento dei governi patriziali imprime una svolta aristocratica anche nelle modalità di svolgimento della festa.

Fra gli obiettivi della ricerca vi è in primo luogo la ricostruzione della “mappa” della vita musicale nei centri dell’area considerata. Le informazioni emerse finora – va sottolineato che la maggior parte degli archivi sono stati sondati poco prima del disastroso sisma del 2016 – riguardano in prevalenza i suonatori chiamati a partecipare agli eventi festivi, il tipo di strumento suonato, il compenso ricevuto per la prestazione, i luoghi di provenienza. La rielaborazione di questi dati mediante un programma per la gestione dei database consente di ricavare ulteriori informazioni su specifici aspetti, come  la circolazione dei musici sul territorio, le oscillazioni nel tempo delle preferenze accordate ai vari organici strumentali o ai singoli personaggi, l’affermazione di singole personalità,  l’organizzazione di piccole società di suonatori, e molte altre notizie che potranno emergere interrogando opportunamente il database.

 


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Ignacio Rodulfo Hazen

Adriana Basile e l’aria spagnola in Italia (1580-1640)

Questa conferenza intende affrontare il rapporto tra Adriana Basile, una delle più importanti cantanti italiane del primo Seicento, e la presenza della cultura musicale spagnola dell’inizio del Barocco. La figura di Adriana Basile fu approfondita per la prima volta nel famoso libro di Ademollo risalente alla fine dell’Ottocento, e più recentemente ha attirato l’attenzione di alcuni studiosi della musica partenopea (Barassi, Nocerino), soprattutto per il suo legame con il canzoniere XVII.30 della Biblioteca Nazionale di Napoli. D’altro canto, la presenza della musica spagnola nell’Italia del primo Barocco è stata per decenni oggetto di studio da parte degli studiosi di storia della letteratura (Croce, Farinelli), che si posero il problema dell’influsso culturale spagnolo in un’epoca di predominio politico in Italia. La scoperta di canzonieri spagnoli datati tra lo scorcio del Cinquecento e il primo Seicento (Croce, D’Acutis, Pintacuda), di commedie (Profeti) e di singole canzoni in lingua castigliana (Baron) nel repertorio del primo Barocco ha incrementato l’interesse nei confronti dell’argomento. L’influsso spagnolo in Italia è stato definitivamente confermato dai più importanti studi sul primo Seicento musicale a Roma e Napoli (Hill, Hammond, Larson), grazie a studiosi che hanno dimostrato più chiaramente che mai quale sia stato il lascito delle pratiche musicali dei Viceré e degli ambasciatori spagnoli nell’ambiente culturale italiano.

Avendo dedicato tre anni alla ricerca sull’attività musicale dell’aristocrazia spagnola a Roma e Napoli nel primo Seicento, ed avendo trovato alcuni dati rilevanti sulla presenza ispanica negli archivi e nelle biblioteche di entrambi i Paesi, ho intenzione di proporre uno studio sulla figura di Adriana Basile sullo sfondo di questi contatti culturali. Bisogna chiarire quale sia stato il rapporto tra la cantante e i principali aristocratici spagnoli in Italia durante la prima metà del Seicento, tentando di delineare l’ambiente musicale nelle corti della penisola. È necessario, inoltre, cercare di determinare quale sia stato l’apporto veramente originale nel contatto con quegli ambienti spagnoli; a tal fine, si deve compiere una sorta di studio comparativo tra il tono della musica nelle corti aristocratiche italiane e quello delle corti spagnole, che risulterebbe di grande interesse per la storia della cultura di quell’epoca. Infine, ci si dovrebbe domandare se la Basile abbia in qualche modo contribuito all’influsso spagnolo nella vita italiana di quegli anni cruciali per la storia musicale, che videro la pubblicazione di libri di musica come quello del Montesardo, che istruiva sul modo in cui cantare in aria Spagnuola.

 


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Alceste Innocenzi

«Lontano dalle dispute, visse di sola musica». Un manoscritto inedito di Giovanni Sgambati

In tenera età Giovanni Sgambati aveva cantato da contralto in chiesa e si era fatto conoscere anche come autore di musica sacra. Sua madre, essendo rimasta vedova, andò a stabilirsi a Trevi in Umbria, dove egli si dedicò, oltre allo studio del piano, a quello dell’armonia con Tiberio Natalucci, che era stato un allievo di Zingarelli al Conservatorio di Napoli.

Il trasferimento in Umbria, “lontano dalle dispute politiche, letterarie e culturali in genere, lo fece vivere di sola musica”.

Giovanni Sgambati, come si evince dall’attenta analisi e ricognizione del carteggio conservato presso la Biblioteca Casanatense di Roma, oltre che un’icona nel panorama musicale del concertismo e della didattica italiana, fu un organizzatore instancabile della vita musicale nella seconda metà dell’Ottocento e fu un musicista al quale in tanti sentirono di potersi avvicinare. Le attestazioni di stima e gratitudine costellano i documenti del Fondo Sgambati, lasciando così emergere l’intensa opera protettrice e promotrice nei confronti dei musicisti particolarmente valenti.

Il manoscritto dell’offertorio per tenore e organo Assumpta est presenta, oltre alla firma dell’autore, la seguente dedica: “composta per il bravo e caro amico Policarpo Cardelli. Spoleto 20 agosto 1886”. La firma e la grafia di Sgambati, come confermato anche dalla direttrice Rita Fioravanti, appaiono compatibili con altre partiture manoscritte conservate nel fondo Sgambati della Biblioteca Casanatense. Il brano era stato composto, verosimilmente, in occasione delle celebrazioni per l’Assunta, a cui la basilica spoletina è dedicata.

Policarpo Cardelli, nativo di Terni, aveva ricoperto il ruolo di tenore nella Cappella del Duomo di Spoleto a partire dal 1850 (Sgambati aveva soggiornato stabilmente a Trevi fino al 1860 ed è in questo periodo che i due potrebbero aver già fatto conoscenza). Contemporaneamente, abbiamo notizia della sua della sua presenza come cantante nelle stagioni d’opera a teatro e della sua attività presso la banda di Matelica in qualità di direttore. Dal 1885 al 1898 risulta stipendiato dall’Opera del Duomo con il ruolo di sopranista, con un compenso di Lire 46.75 mensili. Tale onorario, se raffrontato con quello dell’altro cantore stabile e con quello del maestro di cappella, ci fa capire come fosse il musicista maggiormente tenuto in considerazione all’interno della diocesi spoletina.

Anche se Sgambati viene spesso catalogato come un “pioniere della rinascita strumentale italiana”, aveva già dato numerose prove di essere un ottimo compositore vocale. A Roma aveva studiato con Giovanni Aldega, un conservatore in musica nelle cui composizioni sacre si note l’applicazione alla musica ecclesiastica dei virtuosismi canori propri dello stile del melodramma. Sgambati aveva attinto da lui le basi della tecnica compositiva, ma successivamente, da Liszt, l’atteggiamento attivo nella società in rapido cambiamento che lo circondava e, quindi, una maggiore attenzione alle più aggiornate tendenze musicali e a uno sforzo per adeguarne la produzione artistica.

L’esame della composizione conferma che siamo di fronte ad un brano diverso rispetto allo stile semplice e quasi ingenuo dei primi lavori sacri. Oltre la soluzione del tradizionalismo nazionale, al di là dell’influenza lisztiana che si palesa in colori armonici organizzati secondo una logica non tonale, l’analisi di questa partitura mostra uno Sgambati che sembra perseguire una terza via: la soluzione della linea melodica accompagnata dall’organo o in armonia o con semplici imitazioni all’interno di un discorso prevalentemente tonale. Questi tre indirizzi si fondono in maniera complementare, conducendo ad un esito stilistico originale.

 


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Michael Klaper

Osservare il compositore al lavoro: Come si scrive e riscrive una scena d’opera italiana nel Seicento

Per analizzare il processo compositivo nell’opera italiana del Seicento ci si basa comunemente su un paragone fra il libretto e la partitura. In questa maniera si possono elucidare le decisioni e le strategie di un compositore rispetto a un testo ideato per essere messo in musica, e che va utilizzato e interpretato da lui. Oltre a ciò, qualche volta è possibile ricostruire anche l’adattamento di arie o di intere scene per determinati cantanti, oppure l’aggiunta o la riscrittura di ritornelli etc. – benché non si riesca sempre a stabilire un rapporto tra questi dati e le circostanze della rappresentazione alla quale si riferiscono.

Come vorrei dimostrare nel mio intervento, è un caso singolare, da questo punto di vista, una scena contenuta nell’opera Xerse di Nicolò Minato e Francesco Cavalli (Venezia 1655). Esistono tre versioni differenti della musica che sono databili e localizzabili con sicurezza: una versione concepita prima delle rappresentazioni dell’opera nel carnevale 1654/55 (e quindi, una sorta di abbozzo); un’altra versione che rispecchia la forma in cui la scena venne rappresentata per la prima volta a Venezia, e una terza che il compositore ha fornito nel contesto di un revival dell’opera alla corte francese nel tardo 1660. Come si vedrà, tali continui rifacimenti erano dovuti da una parte al fatto che la scena in questione era inconsueta per il suo tempo (si tratta dell’avvicinarsi di diversi personaggi a un altro personaggio spazialmente separato dai primi, e che sta cantando un’aria), e dall’altra al fatto che questa scena doveva essere adattata a due allestimenti completamente diversi fra loro.

Se in una prima fase – quella della creazione dell’opera – il librettista era coinvolto nell’immaginare un nuovo tipo di scena e nel trovare i mezzi per la sua realizzazione efficace, in una seconda fase era toccato al solo compositore riscrivere la musica prendendo in considerazione sia l’effetto estetico desiderato sia le esigenze del luogo teatrale per il quale la messinscena era prevista. In questa maniera è possibile avere un’affascinante visione del modo di comporre di un famosissimo musicista del Seicento.

 


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Marilena Laterza

Poliautorialità e riscrittura a Napoli nel tardo Settecento: il caso dei «Duettini sopra i salmi di Mattei»

Tra le molteplici intonazioni tardo-settecentesche dei salmi biblici tradotti in versi italiani da Saverio Mattei figurano undici duetti per soprano e basso continuo rimasti ai margini della letteratura musicologica, che si limita a menzionarli parzialmente, ascrivendoli – non senza contraddizioni interne – ad alcuni compositori di area napoletana (vedi, in particolare, Paolo Fabbri, Saverio Mattei: un profilo bio-bibliografico, 1993).

Un esame accurato delle fonti superstiti, tuttavia, permette non solo di appianare i conflitti di attribuzione tra i duetti in questione, ma anche di desumere che essi, concepiti come un vero e proprio ciclo, non vennero composti espressamente dagli autori coinvolti, come ritenuto finora, ma furono invece il frutto di una singolare operazione postuma di riscrittura, compiuta da un compositore di fiducia di Mattei – Salvatore Rispoli – a partire da estratti di opere preesistenti di Cafaro, Jommelli, Hasse, Piccinni e Paisiello.

Il presente contributo, quindi, si propone innanzitutto di ricostruire la configurazione interna del ciclo e di stabilire la paternità ‘originaria’ di ciascun duetto, e in secondo luogo di indagare, grazie all’individuazione e al confronto con i rispettivi ipotesti (arie d’opera, per lo più), i processi di riscrittura messi in atto per l’occasione. L’intento è da un lato di colmare l’attuale lacuna di conoscenze storiche intorno ai “Duettini sacri sopra i salmi di Mattei”, dall’altro di analizzare un fenomeno creativo complesso e – soprattutto nella Napoli dell’epoca – decisamente inedito.

 


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Marco Giuliani – Nicolò Maccavino

Madrigali a cinque voci di Jean de Macque: esegesi sui testi e sulle musiche del VI Libro, Venezia 1613

Lo studio bibliografico ed ermeneutico delle opere madrigalesche, in piena epoca monodica, consente alla ricerca spazi permanenti a svariati contributi di tipo multidisciplinare.

Il Sesto Libro di madrigali di Jean de Macque documenta ancora di più il mondo musicale partenopeo allora dominato dalla figura di Carlo Gesualdo. La ricerca sui testi poetici e musicali, alcune particolarità nell’intonazione, problemi di datazione e di circolazione dei componimenti poetici ed altri aspetti, fanno di questa raccolta un ulteriore prezioso documento di repertorio e di storia musicale del primo Seicento d’area culturale napoletana. Considerati la molteplicità dei possibili percorsi di ricerca, è parso opportuno articolare la presente indagine in maniera funzionale alle specifiche competenze di due diversi studiosi, che potranno, in tal modo focalizzare aspetti e nuclei tematici distinti ma complementari.

 


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Alberto Macrì

La didattica della storia della musica in una prospettiva inclusiva

Se è vero che il compito del docente di qualsiasi disciplina è quello, al giorno d’oggi, di favorire una didattica quanto più possibile inclusiva, la visione dell’insegnante come ‘dispensatore’ di conoscenze hic et nunc deve obbligatoriamente integrarsi con la necessità che lo stesso abbia ben chiaro di rivolgersi a un uditorio - gli studenti - quanto mai eterogeneo. Per capacità, stili e metodologie di apprendimento, innanzitutto. Risulta perciò di fondamentale importanza adoperarsi, con gli strumenti a disposizione e attraverso una formazione adeguata, affinchè la diversità, intesa nell’accezione più ampia del termine, diventi un punto di forza e non un elemento discriminante. Perchè tutti gli studenti possono e devono imparare. Ciascuno secondo il proprio ‘stile’.

La presente relazione, senza alcuna pretesa scientifica, è finalizzata ad esporre e condividere alcuni esempi di azione didattica utilizzati nel corso della mia esperienza di docente di Storia della Musica presso il Liceo Musicale ‘S. Pertini’ di Genova.

 


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Gianrocco Maggio

«Fabbricante e maestro d’organi»: Vincenzo de Micheli (1822-1869) e il patrimonio organario di Terra d’Otranto nell’Ottocento

La Terra d’Otranto è particolarmente ricca di testimonianze tangibili dell’arte organaria meridionale. Mauro, Montedoro, Chircher, Sanarica, Giovannelli sono alcuni tra i più importanti artifices che, tra Seicento e Settecento, contribuirono ad impreziosire con i loro manufatti le chiese e le collegiate dell’estremo lembo del Regno di Napoli. Alla metà del XIX secolo, valido erede di questa fiorente tradizione fu Vincenzo De Micheli da Maglie (1822-1869): egli elaborò un nuovo modello di “positivo” a tre campate che permise di coniugare sia il desiderio delle committenze ecclesiastiche e confraternali di avere uno strumento sonoro e performante, sia la necessità di riadattare gli spazi estremamente ridotti delle cantorie preesistenti. Questo studio, partendo da numerose evidenze documentarie inedite, si prefigge l’obiettivo di ricostruire il profilo biografico e il percorso formativo del «maestro d’organi» salentino: lo spoglio sistematico degli archivi storici comunali e della diocesi di Otranto, ha reso possibile l’elaborazione di plausibili ipotesi riguardanti la sua famiglia e i rapporti di discepolato con altri organari locali. Attraverso opportune comparazioni di tipo organologico, si è inoltre proceduto alla precisa attribuzione dei positivi costruiti dal magliese e si è potuto ricostruire il novero degli strumenti da lui realizzati, completando così il catalogo delle sue opere, distribuite nelle tre più importanti diocesi della Provincia.

 


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Alberto Mammarella

Un ‘eccezionale’ caso di intertestualità: la Missa ad imitationem Vestiva i colli di Giovanni Battista Sandoli (Napoli, 1613)

Nel 1613, a Napoli, per i tipi di Giovanni Giacomo Carlino vede la luce il Liber primus mottectorum et missarum quatuor, quinque, sex, septem et octo vocibus di Giovanni Battista Sandoli. Al tempo Sandoli era canonico ed apprezzatissimo maestro di cappella della Cattedrale di Trani. Diversamente dalle coeve raccolte di mottetti e messe stampate a Napoli, il volume contiene trentatre mottetti e tre messe in stile antico, staccandosi decisamente dalla nuova e spumeggiante produzione concertata a due – tre voci e basso continuo che dal 1610 sembra imperare anche nella città partenopea. Le tre messe sono per organico diverso: le prime due (la Missa Vestiva i colli  e la Missa capricci) sono a 4 voci e la terza (la Missa Laudate Dominum) è a 8 voci. All’interno della raccolta spicca tra tutte la Missa Vestiva i colli. Sebbene questa messa sia riconducibile alla tipologia della messa parodia e si inserisca nel grande filone della ‘Messa Vestiva i colli’ di ascendenza palestriniana, la sua particolarità è ben altra e molto più rilevante. Contravvenendo a tutte le indicazioni e le prescrizioni teoriche del tempo, Sandoli compone non una semplice messa parodia ma una missa omnium carminum o missa diversorum tenorum di chiara ascendenza fiamminga quattro-cinquecentesca, dato che ogni sezione della messa è basata su una diversa composizione, su un diverso madrigale. Un caso unico di complessa intertestualità fino ad ora mai indagato, l’unico del genere tra gli oltre centonovanta titoli di messe riportate da Jeffrey Kurtzman e Anne Schonoebelen nella sezione Imitation masses on vernacular models in A Catalogue of Mass, Office and Holy Week Music Printed in Italy, 1516-1770 (JSCM Instrumenta 2 - 2014).  Sandoli si rivela, dunque, un peritissimo compositore con conoscenze che vanno bel oltre il comune orizzonte del tempo. Nel corso della relazione verranno illustrati le peculiarità del linguaggio compositivo di Sandoli, le numerose fonti utilizzate, il rapporto che nella messa si istituisce con esse, il criterio utilizzato dal compositore per la scelta dei madrigali da utilizzare.

 


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Licia Mari

La Missa Angelorum di Paolo Isnardi: un «alternatim speciale» per le esequie del duca Guglielmo Gonzaga?

Nel volume V in uscita entro l’estate 2018, dedicato all’edizione critica delle Messe dei Gonzaga (Lucca, LIM) conservate nel fondo musicale della basilica palatina di S. Barbara in Mantova, il curatore Ottavio Beretta raccoglie due messe di Paolo Isnardi, due di Gugliemo Textoris, due di Agostino Bonvicino, una di Nicola Parma. Oltre alla presentazione di aspetti biografici degli autori non ancora noti che permettono una loro migliore collocazione nel panorama musicale del periodo, emerge dalla trascrizione la singolare Missa Angelorum di Isnardi. La messa – alternatim sulle melodie della missa in Semiduplicibus minoribus del repertorio monodico barbarino – propone anche l’ultimo Agnus Dei (dona nobis pacem) in polifonia (a differenza dell’uso mantovano che prevede un unico Agnus Dei polifonico tra due monodici) con all’interno una sorta di cantus firmus in canone tra le voci di Tenore e Sesto con parole che invocano la pace per il duca Guglielmo. Questo fa supporre uno scopo specifico della composizione e l’intervento intende approfondire la “porta aperta dal curatore”, contestualizzando la messa all’interno della documentazione relativa agli uffici funebri celebrati per il Gonzaga (Diario manoscritto conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Mantova, cronache dell’epoca come La Insalata di Vigilio, lettere, ecc.), analizzando le scelte compositive di Isnardi rispetto alla prassi dell’alternatim in ambito mantovano (sulla quale grazie alla pubblicazione di gran parte delle Messe Mantovane da parte di Beretta, comprese quelle di Palestrina, sono possibili interessanti riflessioni), all’utilizzo del cantus firmus finale, al repertorio barbarino.

 


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Alessandro Mastropietro

Girolamo Arrigo e gli esordi del teatro musicale sperimentale in Francia (1969-1972)

Orden, musica di Girolamo Arrigo, palermitano (1930) ma all’epoca attivo da tempo a Parigi, debutta al Festival d’Avignon nel 1969: il lavoro, commissionato dalla RTF, segna la legittimazione della sperimentazione di un nuovo teatro musicale in Francia, dove – fin’allora – segnali di una ridiscussione profonda dei principi drammaturgici erano emersi quasi solo nel campo della danza. Orden presenta per la prima volta in quel contesto caratteristiche nuove, che invece avevano già iniziato a mostrarsi altrove: 1) una riformulazione non-lineare della drammaturgia, che rilegge in modo visionario – a partire da uno scarno copione di Pierre Bourgeade – l’avvento di un ‘ordine di morte’ nell’Europa delle dittature, senza generare personaggi di sostanza  psicologica interpersonale, ma tutt’al più figure simbolico-emblematiche; 2) un apporto disciplinare plurale, in cui recitazione dei testi, elementi musicali (vocali e/o strumentali) e azioni (spesso con valenza sonoro-musicale) sono riconoscibili come distinti e insieme rifusi nelle figure dei performer, impegnati in scena in tutte le tipologie di azioni; 3) una ‘scrittura scenica’ degli elementi testuali, musicali, scenografici, entro lo spazio designato (uno spazio pre-esistente e non operistico – un chiostro), per cui quegli elementi vennero a costituirsi in concreta drammaturgia solo con la loro preparazione. Perciò, la partitura esistente si presenta come una successione di episodi separati (alcuni realizzati su nastro), che acquisirono continuità drammatica nel lavoro di montaggio scenico con le altre componenti, guidato dal regista Jorge Lavelli e sorretto dal direttore Charles Ravier, in un lavoro sostanzialmente collettivo: un dattiloscritto redatto da Arrigo dopo la prima realizzazione dà conto di tale scrittura scenica, ed è un corredo indispensabile alla altrimenti (drammaturgicamente) indecifrabile partitura.

Orden ebbe all’apparire ottime accoglienze in Francia, e una buona ricezione anche in Italia: per questo ad Arrigo fu commissionato da Maurice Fleuret per la prima edizione del Festival d’Automne, nel 1972, un nuovo lavoro di teatro musicale, che avrebbe dovuto lanciare anche a Parigi quella linea sperimentale.  Addio Garibaldi mantiene alcune delle caratteristiche di Orden, ma inclina già verso un gioco post-moderno nella diffusa assunzione di stili o di interi reperti storici entro il mosaico linguistico dell’opera, e rinuncia di fatto a un lavoro collettivo di scrittura scenica. Nondimeno, anche Addio Garibaldi ebbe una certa eco, tanto da meritare una realizzazione televisiva della RTF nel 1974 e una ripresa scaligera nel 1982. Fuori dei testi di presentazione alle esecuzioni e dell’intervista all’autore entro il numero semi-monografico curato da Dario Oliveri (CIMS 1991), i due titoli non sono stati mai oggetto di una riflessione musicologica (eccezion fatta – Orden – per un articolo di J.-F. Trubet sul Festival di Avignon del ‘69, in corso di pubblicazione). Essi verranno esaminati col ricorso a varie tipologie di fonti, documenti audio-visivi inclusi.

 


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Lorenzo Mattei

La mia Cecchina è un castrato! L’opera buffa degli evirati cantori

La relazione intende approfondire il tema della presenza dei cantanti castrati nelle produzioni comiche del secondo Settecento. L’indagine privilegerà la situazione produttiva delle scene romane, dove l’impiego dei cantanti evirati era d’obbligo, affiancando l’osservazione di quella d’altri centri teatrali, come ad esempio Londra o Lisbona. La campionatura coinvolgerà una ventina di interpreti indagando: 1. la collocazione delle esperienze in campo comico nell’arco della loro carriera 2. il tipo di vocalità coinvolto, confrontandolo con quello delle opere serie 3. la tipologia di personaggi interpretati (ruoli en travesti o meno). Sulla base dei dati ricavati si potrà tentare di chiarire in qual misura la voce dei castrati andò a inserirsi nel contesto dell’opera buffa rinnovata da elementi patetici e sentimentali e come animò l’ultima stagione dell’intermezzo comico a quattro e cinque voci.

 


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Leonardo Miucci

Il linguaggio pianistico di Beethoven: alcune considerazioni sulle agogiche, «dim. vs. decresc.»

Diversamente da altri compositori per pianoforte appartenenti alle generazioni contigue come Mozart o Chopin, Ludwig van Beethoven visse durante un momento storico di profonde rivoluzioni, sia all’interno che all’esterno del mondo musicale. L’improvvisa ascesa delle classi borghesi, assieme all’evoluzione dello strumento e delle relative tecniche ed estetiche, ebbe pesanti ripercussioni sulla notazione pianistica, sempre più dettagliata e ricca di esplicite indicazioni. Utilizzando le parole di Carl Czerny, pronunciate nel 1839 nella sua Pianoforte-Schule: «Jn den neueren Compositionen werden die Zeichen des Vortrags von den Autoren meistens so ausführlich angewendet, dass der Spieler im Allgemeinen selten über den Willen des Compositeurs in Zweifel sein kann». Questo processo di evoluzione verso un grado di maggior completezza delle istruzioni interpretative fornite in notazione viene perlopiù a delinearsi tra il 18 ed il 19 secolo, periodo che copre perfettamente la parabola compositiva beethoveniana. Infatti, osservando la produzione sonatistica si ha la chiara sensazione di un costante e graduale aumento dei segni interpretativi di ogni sorta: dinamiche, articolazioni, fraseggio, pedale, tra gli altri; le agogiche non facevano di certo eccezione.

In particolare, per quanto concerne l’utilizzo del diminuendo e del decrescendo è possibile notare una condotta che sembrerebbe incoerente: lungo le 32 sonate pubblicate da Beethoven queste due indicazioni vengono spesso alternate, senza un’apparente ragione estetica o espressiva. Un’analisi più dettagliata delle ultime sonate, tuttavia, palesa importanti indizi che rivelerebbero un’intenzione da parte del compositore di comunicare in maniera più raffinata le proprie indicazioni interpretative – in questo caso attribuendo delle implicazioni agogiche ad un segno che richiama esclusivamente il piano dinamico.

Questi sospetti sono corroborati dalla notazione pianistica introdotta da Schubert, e da diversi altri compositori della nuova generazione viennese, che con il pianismo beethoveniano si erano certamente formati.

 


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Nicola Montenz

I canti di Antigone: musica e coscienza individuale nella Germania nazista

Accanto all’ambito dei rapporti tra musica e politica nei dodici anni del terzo Reich, oggetto di numerosi studi, resta totalmente ignorato, a oggi, quello della fruizione musicale e delle ricadute propriamente etiche della musica nei circoli di opposizione intellettuale a Hitler e al nazionalsocialismo. Il dato appare sconcertante, se solo si pensa che una delle anime della Rosa bianca, per citare il più noto dei gruppi di resistenza passiva nati in Germania all’inizio degli anni Quaranta del Novecento, fu il musicologo ed etnomusicologo Kurt Huber, le cui affollatissime lezioni monacensi, opportunamente trascritte, confluirono in un’importante Musikästhetik, pubblicata undici anni dopo l’assassinio dell’autore, decapitato nella prigione di Monaco-Stadelheim il 13 luglio 1943. L’analisi dei diari e delle lettere dei giovani e giovanissimi resistenti, d’altro canto, offre abbndanti resoconti di concerti, di dischi ascoltati in gruppo o in solitudine, e inoltre di ore di studio allo strumento o in corali polifoniche, oltre ad approfondite analisi sociologiche e storiche dei diversi fenomeni artistici. A ciò si aggiungano i proibiti “concerti serali” che si tenevano di notte nelle prigioni del terzo Reich, in cui si cantavano, a cappella, Lieder di Schubert, arie e cori dalle Passioni e dagli oratori bachiani, la cui memoria è stata fortunatamente preservata dai pochi scampati.

L’intervento proposto costituisce una novità in ambito tanto storico, quanto musicologico, poiché non consta che, a oggi, l’argomento sia mai stato oggetto di studi specifici. In assenza di pregressi scientifici, esso intende anzitutto fornire una prima ricognizione del materiale, limitato per ragioni di spazio e tempo, al circolo monacense della Weisse Rose (“Rosa Bianca”) e a quello berlinese dell’organizzazione Harnack/Schulze-Boysen. I dati saranno dunque esposti per la prima volta alla comunità scientifica e se ne tenterà una classificazione per provenienza e tipologia (diari, lettere, protocolli di interrogatorio, memorialistica dei sopravvissuti); essi saranno inoltre oggetto di una discussione ermeneutica, sostenuta dall’evidenza documentaria, in merito al ruolo fondamentale svolto dalla musica ai fini dell’edificazione della coscienza e della costituzione dell’universo etico degli individui e dei gruppi. Si proverà così a mostrare come nella Germania nazista, accanto al quadro noto della musica quale strumento di propaganda e creazione del consenso, ne sussista un secondo, altrettanto fondamentale: in esso, la stessa musica si costituì come base imprescindibile per una profonda rimeditazione dei rapporti tra l’individuo, il potere dispotico, la comunità.

 


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Francesco Nocerino

Pianoforti Pleyel a Napoli

Ignace Joseph Pleyel, giovanissimo, fu a Napoli nel 1785, ove fece rappresentare al Teatro San Carlo una sua opera ed ebbe modo di conoscere il Re Ferdinando I, al quale dedicò anche alcune composizioni.

Una ventina d’anni dopo, a Parigi, Pleyel fondò la celebre industria di pianoforti, connessa al nome e alla musica di Chopin.

La politica protezionistica imposta dal regime borbonico, limitò notevolmente il mercato dei prodotti stranieri prima dell’Unità d’Italia, ma ciononostante in alcuni ambienti napoletani è possibile riscontrare la presenza dei raffinati strumenti d’Ignace e del figlio Camille Pleyel.

Attraverso la descrizione di strumenti ottocenteschi di alto valore storico e artistico, oggi appartenenti a collezioni pubbliche napoletane, recentemente riscoperti e acquisiti, saranno affrontati alcuni aspetti tecnici di vari pianoforti Pleyel (sia a coda che verticali), narrando le vicende che li hanno visti legati a importanti musicisti napoletani e offrendo spunti per nuove ricerche.

 


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Valentina Panzanaro

Scrivere musica strumentale ‘alla francese’ nella Roma seicentesca

Negli ultimi decenni del Seicento, si è andato via via diffondendo in Italia nella letteratura musicale, lo stile francese -codificato con la locuzione ‘alla francese’ -tanto da essere considerato allogeno e aggiunto a molte composizioni sia vocali che strumentali. Il proposito del presente contributo è approfondire il tema sulla ricezione della musica strumentale francese, in particolare della musica da ballo alla luce di recenti studi avanzati da P.Allsop, G.Barnett, W. Hilton e A.Pavanello.

Per la ricerca ho preso in considerazione la produzione strumentale da ballo ‘alla francese’, da fonti manoscritte e a stampa, ascrivibile a Roma tra il 1660 e il 1690. Tale repertorio strumentale, di compositori italiani (Stradella, Berneri, Melani e Corelli), ha trovato ispirazione nello stile francese per arricchire e diversificare la scrittura musicale, con l’uso non solo dell’aggettivazione ‘alla francese’ o ‘stil francese’, ma anche di una certa scrittura ‘francesizzata’ riconoscibile attraverso: nomi delle danze (borè, rigadone, brando, minuetta), ritmo puntato, abbellimenti scritti, nuclei ritmico-tematici ricorrenti.

Nei brani strumentali ‘da ballo’ non si riconoscono facilmente i caratteristici tratti della ‘danse noble’, pertanto la connessione tra le danze ‘alla francese’ e lo stile francese non è sempre ovvia. Per determinare le caratteristiche di queste danze in stil francese ho messo in relazione alcuni modelli ritmico-musicali ricorrenti nelle danze francesi, riscontrati in molte danze italiane, tra le quali la corrente, una delle danze più conosciute e diffuse, arrivando così alla consapevolezza che esistono sottili differenze tra la danse francese e la danza italiana.

Sono convinta, pertanto, di offrire spunti di riflessione sulle possibili cause che hanno spinto i compositori italiani a usare elementi caratteristici del goût français in molte loro composizioni strumentali, per comprendere soprattutto, l’annosa queastio: quanto è francese la musica scritta ‘alla francese’? Le significative ‘tracce’ di scrittura musicale francese nei manoscritti romani, avvalorano la convinzione che gli scambi culturali raramente avvenissero a senso unico.

In definitiva i balletti possono essere inquadrati in un ben precisa ed uniforme tendenza stilistica, un linguaggio comune, ugualmente condiviso dai compositori (french idiom), che trova la sua formulazione in una vera e propria scuola francese –importata in Italia- che si sviluppa in tutta Europa interagendo con le varie tradizioni locali.

 


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Irene Pasqua

La ghironda nell’arte dal XIII al XVII secolo: ricerca del numero aureo, delle simmetrie e della divina proporzione in relazione ai modelli di Memling, Bosch, Virdung, Agricola, Praetorius, Marsenne e Kircher

La ghironda è uno strumento a corde, la cui vibrazione avviene grazie allo strofinamento da parte di una ruota; essa è fatta ruotare attraverso una manovella che mette in vibrazione le corde come farebbe un archetto sulle corde di un violino. Il suono che si produce è molto simile a quello di una cornamusa, grazie alla presenza di bordoni, che emettono un suono fisso e percussivo, e di corde melodiche che vengono tastate da saltarelli lignei chiamati tasti o tangenti. I tasti rendono temperata la scala dei suoni, perché sono disposti a distanze calcolate. E’ noto che gli artisti, nel periodo considerato, ritraessero personaggi, edifici e strumenti nel rispetto delle proporzioni auree, proporzioni che rispettavano precise regole geometrico-matematiche. La ricerca di tali proporzioni, a partire da un supporto nella maggior parte dei casi di tipo fotografico, è stata condotta su circa 80 ghironde ritratte in affreschi, dipinti, tarsie, stucchi, porcellane, stalli lignei, dossali, portali, miniature di manoscritti, incisioni in acquaforte in opere italiane ed estere. In molti casi è stata fatta anche una analisi completa delle caratteristiche dello strumento riprodotto per valutare se quanto emergesse fosse in accordo con quanto riportato nei disegni presenti nei manoscritti ai quali è stato fatto riferimento. L’analisi matematica ha tenuto conto della valutazione, nella maggior parte dei casi, della ricerca del numero aureo, di quanto ciò che è stato ottenuto si discostasse dal valore atteso, della distribuzione dei valori reali in una curva di tipo gaussiano, della stima delle peculiarità di ciascuna opera. Una particolare attenzione è stata prestata alle xilografie e acquaforte conservate presso l’Ashmolean Museum di Oxford. Oggi in molti casi gli strumenti sono costruiti nel rispetto delle proporzioni auree, mentre l’analisi svolta sugli strumenti riprodotti nelle opere del passato ha permesso di dimostrare che non sempre fossero disegnati nel rispetto di tali proporzioni, in alcuni casi addirittura mancanti di parti fondamentali, perché lo strumento potesse suonare. Questo studio non vuole essere un elenco di opere, perché ogni strumento è stato analizzato morfologicamente, correlandolo all’autore dell’opera e alla descrizione del contesto in cui si trovava lo strumento stesso, vuole invece descrivere quanto fosse considerato interessante storicamente, al di là del rispetto delle leggi matematiche. Oggi tale strumento, dopo essere caduto in disuso per lungo tempo, sopravvive e resta un interesse puramente di nicchia sia in Italia che all’estero.

 


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Francesca Piccone

Il progetto sonoro nel torneo alla sbarra per le occasioni medicee del 1579 e 1589. Musica fra allegoria, esecuzione e apparato

Allestiti per le feste nuziali di Francesco I con Bianca Cappello e di Ferdinando I con Cristina di Lorena, i tornei alla sbarra rientrano nelle manifestazioni cavalleresche che solennizzano le nozze, accrescendo così il prestigio dinastico mediceo. Abbandonata la primaria connotazione meramente agonistico-sportiva del torneo, prevale in quei casi l’aspetto celebrativo-parenetico, sviluppato su un’invenzione tematica unitaria; i tornei si declineranno così in una sequenza di fastosi quadri allegorico-mitologici, modulati sulle esigenze dell’avvenimento.

Sebbene nella festa l’aspetto visivo sia preminente, anche il paesaggio sonoro risulta denso e articolato in momenti strategici, come viene riportato nelle descrizioni di Gualterotti e Gaci. Il contributo della musica è infatti parte integrante dell’elaborata coreografia, ed è sviluppato in due differenti dimensioni espressivo-formali: musica legata all’apparato effimero - dunque musica senza finalità artistiche - e musica come atto esecutivo-performativo, percepita tale dal pubblico e dotata di un preciso referente cui si rivolge.

Con il presente contributo s’intende quindi rileggere le due occasioni festive avvalendoci del loro progetto sonoro in rapporto alle finalità della musica nella percezione sinestetica festiva.

 


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Domenico Prebenna

Il repertorio veneziano a Napoli ai tempi di Pietro Andrea Ziani

La relazione intende analizzare la ricezione dell’opera veneziana a Napoli nella seconda metà del XVII secolo, con particolare attenzione al repertorio di Pietro Andrea Ziani che in questo periodo intrecciò le sue fortune con la scena partenopea.

Stabilitosi a Napoli a partire dal 1677, Ziani ricoprì ruoli di assoluto prestigio, divenendo insegnante presso il Conservatorio di Sant’Onofrio e successivamente Maestro di musica della Cappella Reale di Palazzo.

La fama e la perizia compositiva del maestro veneziano avevano già varcato i confini del Meridione nel 1671 quando con L’Annibale in Capua, nel Teatro di San Bartolomeo, la capitale vicereale risuonò delle sue musiche. La sala napoletana era retta, in quel periodo, dall’impresaria romana Cecilia Siri Chigi che per l’occasione scritturò la tanto discussa Giulia De Caro che, ascesa rapidamente alle glorie della “scena”, diverrà a sua volta impresario della stessa antica “stanza” dal 1673.

Proprio a quest’anno risale una cedola bancaria firmata dalla «Ciulla» che recita: «All’abbate Pietr’Andrea Ziani si fa pagamento di tutte le spese fatte per il viaggio a condurre e qui a virtuosi musici da Venetia», documento che testimonia l’avvenuta contrattualizzazione del compositore lagunare grazie ai buoni negozi della “principessa dei bordelli” napoletani. La natia della Pignasecca avvia il prestigioso soggiorno del musicista sulla piazza vicereale determinando una scelta che segnerà vistosamente l’attività musicale cittadina. Ziani sarà chiamato a fare da “mediatore” tra l’indiscussa scena della Serenissima e la nascente industria operistica partenopea. Le opere veneziane portate a Napoli sono molteplici, basti citare a mo’ d’esempio: L’Antigona delusa da Alceste e L’Annibale in Capua di Ziani, il Tito di Cesti, il Giasone di Cavalli, il Demetrio di Pallavicini e innumerevoli altri lavori di compositori noti e meno noti. Sugli esiti di questa stagione si intende indagare le ingerenze dei modelli “forestieri” su quelli in fieri avviati nei laboriosi cantieri cittadini, nonché sondare le manipolazioni dei titoli di repertorio esibiti sulle gloriose tavole del San Bartolomeo soggetti ad “accomodi” finalizzati non solo al gusto ma a strategie politico-ideologiche quanto mai raffinate. È una storia sempre più sofisticata scritta da maestranze e committenti quanto mai arditi, la linea di demarcazione tra volontà autoriale e indicazioni dei “maggiorenti” diviene sempre più evanescente rivelando un gioco delle parti probabilmente foriero ancora di sorprendenti novità.

 


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Maurizio Rea

Il Conservatorio di Santa Maria di Loreto, tra carte di musica e carte d’archivio

All’inizio del novecento Salvatore Di Giacomo fu mandato dal Ministero della Pubblica Istruzione, per una decina di mesi, al Conservatorio di Musica San Pietro a Majella per sostituire il bibliotecario che si era ammalato. Quasi per caso rinvenne le carte degli antichi Conservatori Napoletani che giacevano dimenticate in un sottoscala, e con la mole di documenti a sua disposizione poté fornire un imprescindibile contributo alla storiografia musicale napoletana pubblicando i volumi sui quattro conservatori. Da quel momento i testi di Salvatore di Giacomo hanno segnato la via per tanti studiosi che fino ad allora avevano convinzioni sviate dalle più arbitrarie asserzioni.

Partendo dal prezioso lavoro di Salvatore Di Giacomo, l’attenzione di questo contributo sarà focalizzata sul Conservatorio di Santa Maria di Loreto, che fu il primo dei quattro conservatori ad essere fondato dalla pietà popolare. La sua genesi e i suoi sviluppi tuttavia, appaiono non del tutto definiti e studiati: si cercherà di dare una datazione precisa della fondazione che attualmente si fa risalire al 1537, nonostante l’opera pia sia già indicata in documenti precedenti alla suddetta data. Altro elemento degno di interesse riguarda i padri Somaschi che giunsero in conservatorio nel 1569: l’individuazione e lo studio di documenti finora inediti, ha permesso di comprendere meglio le dinamiche di gestione del conservatorio e ha favorito altresì la possibilità di comprendere le motivazioni per le quali furono allontanati nel 1708. Lo studio, nello specifico, verterà intorno a due punti, l’uno congiunto all’altro:

 

  • il contesto storico e produttivo in cui opera l’istituzione (i rapporti con l’autorità religiosa e civile, i padri Somaschi, il viceregno e la monarchia, la rivolta di Masaniello, la peste del 1656, i vari terremoti e le eruzioni del Vesuvio,);
  • l’attività musicale dei figlioli come fonte di guadagno (il governo del conservatorio, qualche caso particolare di figliolo particolarmente produttivo o indisciplinato, le piazze di musica e le paranze).

La presente ricerca si avvale di nuove acquisizioni documentarie che vanno a integrare i numerosi studi esistenti sull’argomento e restituiscono un quadro d’insieme più efficace a mettere in luce la grande vitalità del conservatorio, e più in generale del territorio napoletano nell’arco di ben tre secoli. Una commovente esplorazione che dà anche un po’ di tristezza al pensiero di un passato glorioso vissuto così intensamente da tanti figlioli e maestri e tuttavia così ingiustamente dimenticato.

 


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Francesco Rocco Rossi

Modulorum (super)inventiones: tracce di canto super librum in un tricinium in Tr. 87

Con questo paper intendo proseguo una precedente ricerca sulla genesi di Vergene bella di Guillaume Du Fay per la quale ipotizzai delle connessioni con la prassi estemporanea del canto alla viola (o canto super librum). Come ci ha insegnato Nino Pirrotta, la tradizione orale si reggeva sui cosiddetti aeri, un bagaglio di moduli melodici tràditi oralmente dal quale l’esecutore attingeva ed elaborava le proprie performance improvvisative. Si trattava di formule musicali monodiche trattate con elasticità tale da adattarsi a testi diversi e costituivano un patrimonio non scritto del quale, fortunatamente, talvolta affiorano, all’interno del coevo repertorio notato, alcune tracce. La fissazione su charta, però, comportava necessariamente un intervento più o meno consapevole di natura compositiva e, di conseguenza, una sorta di cristallizzazione dell’aere che, quindi, perdeva l’originaria elasticità. Ciononostante esse sono preziosissime perché costituiscono l’unica chiave di accesso alla comprensione del fenomeno. Particolarmente interessanti si rivelano sei piccoli pezzi a 3 voci contenuti nel Ms. 87 del Castello del Buonconsiglio di Trento. Uno di essi (c.119r) in particolare si è rivelato essere l’attestazione scritta del motivo alla base dell’elaborazione compositiva di Vergene bella di Du Fay. In questa sede intendo approfondire la questione soffermandomi stavolta sulla sua particolare struttura formale. Il codice trentino ce ne offre due versioni; una particolarmente semplice immediatamente seguita dalla sua rielaborazione più ornata e dilatata nelle dimensioni; in entrambi i casi la melodia principale è affidata al superius che si dipana su due voci inferiori leggermente più statiche. Particolarmente interessante è la struttura formale frutto della giustapposizione di brevi moduli polifonici tra loro collegati da piccoli aggregati accordali che fungono da ‘snodo’ per connettersi ad ambienti melodici sempre diversi. Con la mia analisi intendo verificare se questo tricinium e altri brani analoghi possano essere assimilabili (o quantomeno complementari) alle modulorum superinventiones di cui parla Tinctoris nel De inventione et usu musicae (ca. 1481) in relazione alla prassi improvvisativa coeva.

 


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Luciano Rossi

“Il Vespro Pontificale Concertato tra Sette e Ottocento”. Riflessioni e ricostruzione di una magnificente tradizione liturgico-musicale attraverso composizioni e autori esemplari e inediti

L’intervento si propone di indagare, implementare e ridiscutere le nostre attuali conoscenze ri- spetto una delle più caratteristiche e storiche forme di liturgia musicale della Chiesa cattolica, os- sia il solenne “vespro pontificale concertato” – definito “vesperone” dalla tradizione popolare –, soprattutto alla luce delle nuove e più recenti acquisizioni d’archivio che lo riguardano diretta- mente, e provenienti massimamente dallo spoglio mirato di depositi musicali legati alle numerose cappelle ecclesiastiche post tridentine. Nel particolare, si suggerisce una rilettura e una ricostru- zione esemplare della dinamica celebrativo-musicale che qualifica questa liturgia tra Sette e Otto- cento in Italia, ottenuta analizzando sia i formulari eucologici in alcuni contesti celebrativi specifi- ci, sia ridiscutendo nel dettaglio la forma e i contenuti sottesi nei rapporti sintattico-compositivi impliciti ed evidenti in talune e scelte inedite partiture di antifone, salmi ed inni, che di fatto defini- scono, tutte insieme, il contesto sonoro di questa liturgia, celebrata quasi totalmente in musica. Nata e man mano affermatasi a partire dalla riforma tridentina, la forma liturgico-musicale del “vesperone” ridefinisce di fatto la prassi celebrativa di tutte quelle domeniche o festività doppie o semidoppie del nuovo calendario liturgico cattolico – ossia quando diviene norma il doppio ve- spro, uno celebrato la sera della vigilia e l’altro nel pomeriggio della stessa festività –, come nel caso del Corpus Domini, del primo vespro nelle festività degli apostoli, degli evangelisti, dei martiri e dei confessori, o ancora per la festa della dedicazione di una chiesa o per tutte le diverse e spes- so locali memorie patronali. Occasioni, queste, che hanno permesso al “vesperone” di assumere nel corso dei secoli una valenza identitaria e una simbiosi strutturale con la liturgia in sé, svilup- pando qualità musicali peculiari che ne hanno favorito una crescente affermazione a livello sociale, cultuale e culturale, aspetti ad oggi poco affrontati e invece importanti da riscoprire e valorizzare. Per questo, il mio proposito sarà quello di cercare di evidenziare come tale liturgia se da una parte conferma il come diviene il formulario eucologico e la celebrazione più frequentata dai maestri di cappella e compositori post tridentini, dall’altra si profila come forma ideale nella quale i detti compositori hanno la possibilità di dimostrare tanto la propria capacità – misurandosi con una consuetudine tecnico-formale ben connotata ma di cui nessun trattato d’epoca ci offre una pur minima descrizione –, quanto di esprimere e testimoniare in musica una preparazione e interpreta- zione teologica e biblica personale di grande levatura, una riprova altresì di coerenza rispetto la ricorrente scelta magisteriale di questi stessi musicisti, che è quella di essere o divenire sacerdoti, plasmando così la propria produzione in completa simbiosi con il servizio al liturgico.

 


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Giacomo Sciommeri

Alcune considerazioni su Pietro Terziani (1763-1831), «uno de’ più celebri contrappuntisti de’ nostri giorni»

Pietro Terziani nacque a Roma nel 1763. Membro della Congregazione di S. Cecilia e dell’Accademia Filarmonica di Bologna, fu maestro di cappella della Basilica di S. Giovanni in Laterano e della Chiesa del Gesù. Durante il dominio napoleonico si trasferì a Vienna, dove proseguì la sua attività compositiva. Autore di una vastissima quantità di musica sacra, per la quale fu particolarmente apprezzato da illustri personaggi quali Pietro Alfieri, Fortunato Santini, Franz Sales Kandler e Giuseppe Trambusti, Terziani compose anche due opere (Il geloso imprudente, 1785; Creso, 1788), vari oratori (tra cui La sconfitta degli Assiri, 1788; Il trionfo di Davide nella morte di Golia, 1790), brani per voce e accompagnamento e componimenti strumentali.

A partire dalle biografie antiche di Alfieri (Brevi notizie storiche sulla Congregazione [...] di Roma, 1845) e Trambusti (Storia della musica e specialmente dell’italiana, 1867), principali riferimenti per gli scarsi contributi moderni dedicati al compositore, con la presente relazione si vuole proporre una ricognizione bibliografica sulla figura di Terziani e presentare alcuni documenti sconosciuti, perlopiù conservati presso l’Archivio Storico del Vicariato di Roma, che permettono di apportare nuove informazioni o correggere alcuni dati sulla sua biografia. Scopo della relazione è anche quello di gettare uno sguardo sulla produzione musicale di Terziani, ad oggi ancora in attesa di essere studiata e riscoperta sul piano esecutivo, con particolare attenzione verso le sue canzonette per voce, chitarra francese e basso che costituiscono un esempio emblematico del passaggio dal repertorio vocale del XVIII secolo alla musica da camera destinata ai dilettanti della borghesia primo-ottocentesca.

 


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Mariateresa Storino

Liszt in Italia: tracce inedite di soliloqui musicali

L’atto di nascita del recital pianistico moderno si registra ufficialmente il 9 giugno 1840 a Londra con un concerto di Franz Liszt (emblema del virtuosismo ottocentesco) nelle Hanover Square Rooms. L’evento non giunge all’improvviso; fin dal marzo del 1839, nel corso del suo “viaggio in Italia” in compagnia della contessa Marie d’Agoult, il pianista si era esibito a Roma in “soliloqui musicali”, una novità importante in un mondo dominato dall’opera e dalle cosiddette accademie. Sulla scelta di questa formula Liszt si esprime in una lettera a Cristina di Belgiojoso del 4 giugno 1839: questa era la strada intrapresa, e su di essa intendeva proseguire; per ovviare alle difficoltà di progettare un programma coerente, si era presentato al pubblico dichiarando “le concert c’est moi”, in stile Louis XIV.

Nel 1989 alcune pagine inedite del diario della contessa d’Agoult, pubblicate da Luciano Chiappari nel volume Liszt a Firenze, Pisa e Lucca, insinuarono il dubbio sulla datazione dell’origine del recital pianistico sostenuta per decenni dai musicologi: «Cinq jours à Pise. Boccella se fait notre ami. Concert que Vieux donne tout seul. Campo-santo au clair de lune (ville commencée et abandonnée).» Così scriveva la contessa nelle sue Mémoires in un breve frammento dedicato a Pisa, così come breve era stato quel primo soggiorno nella città toscana in compagnia di Liszt sul finire del gennaio 1839.

Nel 1990 il diario della d’Agoult arriva integralmente alle stampe a cura di Charles Dupêchez; nel 2004 segue una riedizione in calce alla corrispondenza della contessa, senza tuttavia alcuna prova a sostegno dell’esibizione di Liszt a Pisa e con il graduale disperdersi delle amicizie di quei giorni nelle nebbie del tempo.

Obiettivo del presente intervento sarà la discussione di documenti inediti del e sull’entourage lisztiano a Pisa che non solo per la prima volta confermano la testimonianza della d’Agoult – consentendo quindi di retrodatare la nascita del recital solistico e il luogo di creazione dello stesso – ma riaprono l’interesse sui giorni italiani di Liszt, sulla rete di relazioni che il pianista intrattenne con personalità “pisane” (Cesare Boccella e Giovanni Rosini), sulla sua partecipazione al 1° Congresso scientifico italiano, sul processo di gestazione di alcune sue opere, sulla centralità dell’arte italiana nella formazione del musicista e nell’elaborazione della sua concezione di musica a programma.

 


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Maria Venuso

Chopin e la danza del Novecento: ‘ascoltare con gli occhi’ la generazione romantica

L’impiego della musica di Frédérc Chopin nel teatro di danza trova ampio spazio nel Novecento, da Isadora Duncan (Falcone-Veroli, 2017) a Les Sylphides di Mikail Fokine (1908), da The Concert (1956) e Dances at Gathering (1969) di Jerome Robbins a La Dame aux Camélias di John Neumeier (1978), fino al linguaggio della danza contemporanea di Marie Chouinard (24 Préludes by Chopin, 1999) e il recentissimo In Chopin di Marco De Alteriis (2015). Il legame della musica di Chopin con la danza trova la propria origine, com’è noto, nell’ambito della piccola borghesia polacca in cui il Compositore si formò e che permeò il suo linguaggio del colore nazionale patriottico, con aperture a forme di danza differenti (valzer, scozzese, bolero, rondò - Belotti, 1984; Rosen, 1997). L’uso del pianoforte, quale strumento solista privilegiato, si inquadra in un sistema ideale in cui i ritmi derivati da danze popolari costituiscono un aspetto identificativo della personalità chopiniana, mentre la bellezza rarefatta e indefinita dei notturni trova corrispondenza felice nell’aerienne coreico dello stesso periodo storico. Tuttavia è il XX secolo che chiama Chopin a sostegno della danza teatrale in una visione nuova: le composizioni che accompagnano il movimento non sono solo mazurke-valzer-polacche che, dal linguaggio solistico del pianoforte, trasmigrano nelle versioni orchestrate delle Sylphides fokiniane (Kögler, 1988; Rizzi-Veroli, 2011; Veroli-Vinay, 2013) per snaturare la forma originaria in un balletto concertante. Sono i Preludi, le Sonate, i Concerti (nondimeno la Marcia funebre) che permettono al linguaggio del corpo danzante novecentesco di far ‘ascoltare con nuovi occhi’ una pietra miliare della storia della musica, in un connubio sinestetico di ascolto, visione, movimento. In questa sede si illustreranno, in una panoramica d’insieme, gli impieghi della musica di Chopin nelle messe in scena più significative del Novecento, focalizzando il discorso sulle potenzialità drammaturgiche del pianoforte in relazione alla messa in scena danzata, con focus specifico sulla Dame di Neumeier (Poletti, 2004).